Stirling Moss si era trovato vicinissimo, poco più che trentenne, a spezzare quel filo sottile che tiene appesa la vita di un pilota automobilistico. L’azzardo l’aveva compiuto sul circuito di Goodwood, nell’Inghilterra meridionale, affrontando una curva con la Lotus a velocità da brividi. Quell’incidente lasciò il segno. Tornato a gareggiare, dopo alcuni mesi, si rese subito conto che i riflessi di guida non erano istantanei come prima e senza pensarci due volte decise di voltare pagina. È allora, anno 1962, che uscito dal circolo vorticoso delle competizioni a livello professionistico entra nell’esclusiva galleria dei piloti che hanno scritto la storia dell’automobilismo sportivo. I grand prix di Formula Uno erano nati con lui e un decennio e passa di corse, nel quale si stagliavano le figure quasi leggendarie di Alberto Ascari e Manuel Fangio con cui aveva pure gareggiato, basterà per fargli incarnare nella cultura di massa il prototipo del pilota moderno. In quel decennio di esordio della F.1, i Cinquanta, condusse alla vittoria nel gran premio d’Argentina la Cooper-Climax che verrà ricordata come la prima monoposto con motore posteriore.

Il 1958 aveva registrato una svolta epocale per il passaggio dalle macchine appesantite da grossi motori, alloggiati nel cofano anteriore, alle monoposto dal profilo filante con telaio estremamente leggero e propulsore alle spalle del guidatore. C’è dell’altro per Moss. Alla guida di una Jaguar C, già nella Mille Miglia del 1952, il freno a disco faceva la sua prima apparizione sulle strade. Ma se per lo sviluppo meccanico si procedeva con speditezza, per la progettazione di macchine in grado di fornire margini di sicurezza alla componente umana si dovranno attendere decenni. L’incolumità personale veniva lasciata, fatalmente, in balia di troppe variabili. Il pilota, il cui scopo precipuo è di vincere la corsa, correva consapevolmente l’alto rischio che l’abitacolo della propria vettura si trasformasse in una bara metallica. Schiere di piloti, appartenenti alla generazione di Moss, se ne andarono di corsa, tragicamente.

Sfumato l’accordo d’ingaggio con casa Ferrari agli albori della carriera, si legherà all’altra scuderia modenese che pure eccelleva, la Maserati, con la quale si avviò a primeggiare sia in Formula Uno che nel Mondiale Marche. I piloti del tempo brillavano per versatilità tecnica, qualità originata da una non comune padronanza di guida e del mezzo (conoscitori loro stessi di ogni pezzo della macchina con cui correvano, ne erano i primi meccanici) che li faceva oscillare disinvoltamente dalle monoposto aperte alle macchine chiuse Gran Turismo. Col nostro paese, terra di motori e di corridori talentuosi, ancorché sfortunati, manterrà un rapporto costante. Alcune vittorie da record le ottenne, oltre che sui circuiti, su strade ordinarie come nella Mille Miglia del 1955. In quella che veniva considerata «la più bella corsa del mondo» gareggiò con una Mercedes ottenendo la più elevata media di velocità mai cronometrata. Due anni dopo, nel ’57, andò a vincere con la Vanwall un’altra corsa massacrante e pericolosa (non meno della Mille Miglia) su tracciato stradale: il gran premio di Pescara che con i quasi 26 chilometri di percorso è stato il più lungo su cui si sono disputate gare di Formula Uno. Fra le altre affermazioni il gran premio di Monza (tre volte), la Targa Florio, la 12 Ore di Sebring, il Tourist Trophy, le Mille chilometri del Nurburgring (Germania) e di Buenos Aires.

A Monza, ancora nel ’58, non si lasciò sfuggire l’opportunità di misurarsi con le monoposto americane modello Indianapolis sull’anello ovale ad alta velocità dell’impianto, caratterizzato dalle audaci curve sopraelevate. Partecipò infatti alla seconda e ultima edizione della «500 Miglia di Monza» o «Corsa dei Due Mondi», che era una sintesi delle gare di Indianapolis e di quelle che si disputavano nel super-veloce catino monzese. Ne venne fuori una competizione ad altissimo livello, fra le motoristiche di produzione americana ed europea, nella quale il pilota inglese si pose in luce, ancora una volta, con una vettura Maserati sponsorizzata Eldorado e battezzata «Eldorado Italia».

Quel nome, Stirling Moss, aveva un suono che si addiceva a uomini di successo. E lui, consapevole o no dall’essere un prescelto, al di là del nome, si sentiva effettivamente un personaggio, con un’inguaribile autostima sia come uomo che come pilota. Una tale autostima che di certo non gli aveva fatto pesare la mancata conquista nell’arco dell’attività agonistica di un titolo mondiale, né con monoposto di Formula Uno (neanche quando passò all’emergente Vanwall) né con vetture Sport. A dieci anni di distanza, primi anni ’60, ci fu un ritorno di fiamma con le rosse di Maranello; Enzo Ferrari si era finalmente deciso che doveva far parte della squadra. Ma poi quell’incidente sulla pista di Goodwood…

I suoi più insidiosi rivali sono stati forse i connazionali Peter Collins e Mike Hawthorn, entrambi ferraristi e il secondo anche campione del mondo con lo stemma del cavallino rampante. Tutti e due persero la vita sulle strade. Addirittura Hawthorn, subito dopo il ritiro dalle corse, in un banale incidente su una carreggiata extra-urbana. Stirling Moss, che era stato insignito del titolo di baronetto per meriti sportivi, ha venduto cara la sua pellaccia andandosene dopo una vita di soddisfazioni post-agonistiche a 90 anni suonati.