Ci sono voluti più di 40 giorni di attesa, ma alla fine il maestro elementare e leader sindacale Pedro Castillo ce l’ha fatta: dopo aver respinto tutti i ricorsi presentati da Keiko Fujimori, il Tribunale nazionale elettorale lo ha proclamato, lunedì sera, presidente del Perù per i prossimi cinque anni.

Per il momento, la “Signora K” è apparsa rassegnata, riconoscendo i risultati del ballottaggio del 6 giugno «perché così stabilisce la legge», benché convinta che «la verità verrà alla fine alla luce» e decisa a lavorare «perché si ristabilisca la legittimità nel paese».

Sconfitta al secondo turno per la terza volta consecutiva, la figlia dell’ex dittatore – la cui condotta dopo le elezioni è stata bocciata dal 65% dei peruviani – le aveva provate veramente tutte per impedire la vittoria del suo avversario, spingendosi fino a richiedere al governo Sagasti di convocare un’audizione internazionale per la revisione delle schede, e fino a inviare a Washington una sua delegazione con il compito di riunirsi con il segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani Luis Almagro.

L’ OBIETTIVO ERA CHIARO: ottenere da lui il sostegno per una via d’uscita golpista del tipo di quella messa in atto così efficacemente in Bolivia. Ma neppure lo screditato segretario generale dell’Oea ha osato tanto, dovendo oltretutto contraddire i risultati della stessa missione di osservatori elettorali dell’organismo, la quale aveva nettamente scartato l’esistenza di brogli.

E nel vuoto sono caduti tutti i vari appelli golpisti, come quello lanciato dall’ex candidato presidenziale nel 2016 Alfredo Barnechea, il quale aveva invocato apertamente un’alleanza tra civili e militari che impedisse a Castillo, definito «comunista» e «terrorista», di assumere la presidenza.

Ma se le manovre golpiste sono tutte fallite, è assai probabile che ci penserà il Congresso, estremamente frammentato e maggioritariamente conservatore, a boicottare l’azione di governo del nuovo presidente, impedendogli di realizzare gli obiettivi più ambiziosi del suo programma elettorale.

E CHE IL RISCHIO SIA REALE ne è convinta anche Verónika Mendoza, ex candidata presidenziale per il partito di sinistra Juntos por el Perú, poi alleata di Castillo, la quale, in un’intervista al quotidiano La República, ha evidenziato come i gruppi di potere puntino ancora una volta a «governare senza aver vinto le elezioni», lanciando una campagna diretta a «far entrare nella compagine governativa quanti ritengono che debbano starci» e a impedire la convocazione di un referendum su una nuova Carta costituzionale, punto irrinunciabile della campagna del leader di Perú libre.

NON POTENDO DISPORRE di una maggioranza parlamentare, la presidenza Castillo, che avrà inizio il 28 luglio, sembra dunque partire in salita. Il vincitore delle elezioni, però, ha fatto di tutto per trasmettere tranquillità al paese, sia aspettando pazientemente la proclamazione dei risultati, sia smentendo qualunque attentato alla proprietà privata, sia cercando di assicurarsi ministri ritenuti affidabili.

Non a caso, i nomi più accreditati sono quelli del medico Hernando Cevallos alla guida del ministero della Salute e dell’economista Pedro Francke a capo del ministero dell’Economia e delle Finanze: il primo ha gestito i rapporti con l’ambasciata della Cina, l’Istituto Gamaleya di Mosca e la Pfizer per assicurare al paese l’accesso ai vaccini; il secondo, noto per i suoi studi sulla povertà, sulla salute e sulle politiche sociali, è sì un sostenitore di un più deciso ruolo dello stato in economia, ponendo anche l’accento sulla necessaria rinegoziazione dei contratti con le grandi imprese estrattiviste, ma escludendo qualsiasi nazionalizzazione e assicurando una piena difesa della proprietà privata.

MA SE MOLTI SOTTOLINEANO come Castillo, pur descritto come un socialista di tradizione «marxista-leninista-mariateguista», si sia in realtà iscritto a Perú Libre solo nel settembre del 2020 – avendo prima militato nel partito Perú Posible dell’ex presidente Alejandro Toledo -, è forte, tra i suoi elettori, la speranza che non finisca come l’ex presidente «traditore» Ollanta Humala, il quale, votato dagi elettori della sinistra, ha poi finito per governare insieme alla destra.