Sulla Croisette con i film di Abel Ferrara e Jean-Luc Godard, senza contare l’annuncio che saranno loro a finanziare il leggendario documentario in 3D a cui Terrence Malick sta lavorando da dieci anni, la Wild Bunch di Vincent Maraval è sicuramente l’etichetta più cutting edge di quest’edizione del festival. L’avventuroso produttore/distributore francese (che giovanilisticamente indossava una maglietta di Batman alla proiezione ufficiale di Adieu au Langage) ha fatto i fuochi d’artificio anche con un documentario. Presentato in una proiezione speciale fuori concorso, Red Army, è diretto dal giovane regista americano Gabe Polsky (Motel Life, al festival di Roma due anni fa) e ha come produttori esecutivi Werner Herzog e Jerry Weintraub.

Facilissimo capire come mai Herzog abbia prestato il suo nome a questo squarcio di Guerra fredda anni ottanta (gli stessi della serie tv The Americans) ambientato nelle arene ghiacciate dell’hockey. Il film è incentrato su un protagonista che più herzoghiano di cosi non si può: Vlachaslav Fetisov, ovvero uno dei massimi giocatori di hockey della storia, vincitore di due ori olimpici e di sette campionati mondiali, il primo cittadino sovietico a ottenere il permesso di praticare lo sport fuori dall’Urss, poi punito perché non malleabile come il regime lo avrebbe desiderato. Non disposto a fare defezione, a un certo punto era emigrato in Usa con la riluttante benedizione di Mosca, ma poi è rientrato  per diventare ministro dello sport di Putin. Senza di lui i giochi olimpici non sarebbero mai arrivati a Sochi, spiega il press book del film. «Vslava» è così amato che gli hanno persino dedicato un asteroide.

Sornione ma capace di improvvisi lampi di malumore, Fetisov reagisce alle domande di Polsky come un gatto alle prese con un topolino. Il regista (che è figlio di genitori immigrati a Chicago dall’Unione Sovietica e ha praticato hockey fin da bambino e poi giocato nella squadra universitaria di Yale) asseconda di buon grado gli istrionismi e gli occasionali cattivi umori del suo soggetto. È Fetisov che conduce la danza, non ci sono dubbi. Polsky non oppone resistenza, la loro è una lotta impari, ma la storia e talmente bella che va bene così.

Lo incontriamo da bambino, nell’Urss di Breznev, reclutato a far parte di uno dei fiori all’occhiello dello sport sovietico, la nazionale di hockey, battezzata, Red Army. Anatoli Tarasov, il primo allenatore di quell’imbattibile armata rossa, che Mosca usava come pr internazionale e segno della supremazia sovietica, considerava parte del training anche portarli al Bolshoi e a conoscere il campione di scacchi Kasparov. L’hockey, gli insegnava è un balletto e un gioco di strategia. Ma soprattutto uno sport di squadra. Veloci, aggraziatissimi e pieni di fantasia, Fetisov e i suoi compagni erano, non a caso, soprannominati la sinfonia russa. Sul ghiaccio, la bellezza e l’efficacia di quel gioco sinfonico contrastano fortemente con l’individualismo e la brutalità che informano le mosse dei giocatori Usa.

«Ho trovato del girato d’epoca ed è stato uno shock. L’hockey sovietico era incredibilmente creativo e basato sull’improvvisazione. Si muovevano con fluidità, come un corpo solo –più che a un gioco sembrava di assistere a una forma d’arte», scrive Polsky nelle note di produzione del film. In seguito alla devastante sconfitta contro la squadra americana, alle Olimpiadi di Lake Placid, nel 1980, l’amatissimo, geniale, allenatore della Red Army viene rimpiazzato da Viktor Tikhnov, un uomo del KGB, dall’aria più grifagna e dei metodi molto punitivi con cui Fetisov non può che scontrarsi. Con gli anni –e l’arrivo di Gorbaciov- pesa sempre di più come i campioni della nazionale sovietica conducano vite dure, lontane dalle loro famiglie e siano poco pagati rispetto ai colleghi della NHL. Alcuni faranno defezione, altri si lasciano «affittare» agli americani da Mosca. Che incassa percentuali altissime dei loro cachet. Fetisov dice di no a entrambe le opzioni rischiando di perdere tutto. «Mi stai facendo le domande sbagliate. Oggi sono un uomo politico», dice seccato quando Polsky gli chiede se rimpiange la Red Army e il sistema sovietico. Decisamente un uomo politico…. Ma ancor di più una star.