Sinfonia pulp per un criminale
Bad Boys: Ride or Die, il film diretto da Adil El Arbi e Bilall Fallah, è stato un discreto successo, anche in Italia. Ma quello su cui vogliamo puntare l’attenzione è proprio il titolo, Bad Boys, ovverosia «cattivi ragazzi», che ci dà lo spunto per tracciare una linea invisibile che ci porterà in un viaggio dall’Occidente all’Oriente, pieno di tipi loschi, poco raccomandabili, ma dall’appeal unico.
Fin dai tempi di Emilio Salgari e del suo Il corsaro nero (1898), la cultura popolare è costellata di gaglioffi, tagliagole, reietti sociali assurti ad eroi. Sam Peckinpah ha dedicato a una coppia di criminali uno dei suoi film più lirici, Getaway! (1972), interpretato da Steve McQueen e Ali MacGraw. Senza dimenticare David «Noodles» Aaronson di C’era una volta in America, Ugo Piazza di Milano Calibro 9, o Tony Montana di Scarface. Tutti personaggi destinati, come diceva Elvis Presley, a seguire il motto di una vita breve ma intensa: «Vivi una vita al massimo e lascia al mondo un bel cadavere». Sono d’altronde i figli del buon dio di De André, quello che non regala i raggi del sole a certi quartieri, gli antieroi del neorealismo di Pasolini, delle carceri di Aurelio Grimaldi, coloro che muoiono giovani, come cantava Saffo, perché forse «cari agli dei».
Il mondo della musica è pieno di «bad boys», ragazzacci che fanno ammattire i genitori ma mandano in visibilio le figlie, soprattutto nelle varianti pop, anche italiane, più orecchiabili, come Emis Killa che in A cena dai tuoi canta: «Non sono un genero adatto per voi/Vi è capitato un fottuto bad boy/Non si può andare d’accordo perché/Non piaccio a voi e voi non piacete a me».
Il mito di Rusty il selvaggio, di Marlon Brando, di James Dean, viene sublimato da Bob Dylan nella canzone simbolo dello struggente Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah, Knockin’ on Heaven’s Door: «Mamma, ho messo a terra le mie armi/Non posso più sparare/Quella lunga nuvola nera sta venendo giù/Mi sento come se stessi bussando alla porta del paradiso». E proprio bussando alle porte del paradiso iniziamo questo viaggio sonoro attraverso le canzoni e le colonne sonore dei film e dei videogiochi che raccontano la storia dei cattivi ragazzi, di criminali che hanno lasciato il segno nella cultura pop di tutto il mondo.
ANTIEROI
Carlito’s Way è un film di Brian De Palma del 1993. Anzi è probabilmente «il» film di Brian De Palma, a distanza di dieci anni esatti dal capolavoro Scarface, potente remake di un classico del bianco e nero di Howard Hawks. Ancora Al Pacino, ancora una storia di un uomo che ha abbracciato completamente la delinquenza. Se però il percorso di Tony Montana finisce in un’ecatombe di proiettili, sangue e cocaina, quello di Carlito Brigante, stavolta portoricano e non cubano, inizia in maniera meno tragica: il nostro si è fatto cinque anni di carcere e ne è uscito, sembra, più forte e strafottente di prima. Eppure così non è, la prigione ha davvero cambiato l’uomo. Cesare Beccaria, nella seconda metà del Settecento, affermò che lo scopo di una pena era quello di evitare reati. A suo dire, al colpevole dovrebbe essere comminata una punizione che meglio tende alla rieducazione. Il fine delle pene doveva essere quello di convincere il colpevole a non ricommettere gli stessi errori, «le pene non dovranno far soffrire perché dalla sofferenza non si potrà azzerare il crimine». Quindi da quell’inferno di privazioni rinasce un nuovo uomo che cerca in tutti i modi di fuggire da un futuro già scritto: così l’amore per la ballerina Gail e l’arrivo di un figlio lo spingono in tutti i modi a cercare una via di fuga, un happy end magari baciato da un sole caraibico.
Struggente, decadente, romantico e disperato, Carlito’s Way riflette sul genere gangster, sui suoi stereotipi e sulla fine gloriosa dei suoi antieroi. Quello che a vent’anni sembra un gioco, così non è alle soglie dei cinquanta. Carlito Brigante porta dentro di sé il ricordo dei caduti, il fuoco dell’esuberanza ha lasciato spazio alla consapevolezza di non essere neanche più troppo caro agli dei. Al Pacino con una folta barba nera recita in sottrazione rispetto al precedente Tony Montana, e il film, a cominciare da una bellissima colonna sonora jazz e romantica, ha un’aria di disperata malinconia che lo rende forse uno dei più begli esponenti del genere gangsteristico.
De Palma ha lavorato nella sua carriera con una straordinaria gamma di talenti musicali: Bernard Herrmann, John Williams, Pino Donaggio, Ennio Morricone, Ryuichi Sakamoto, Danny Elfman. Carlito’s Way lo ha portato a collaborare per l’unica volta con il quasi esordiente Patrick Doyle. Un azzardo perché all’epoca il compositore era solo alla sua settima colonna sonora, nessuna davvero memorabile, sebbene tutte di ottima fattura. Questa resta, nella carriera del musicista, una delle sue più riuscite, la prima che davvero ne mostra talento e carattere. Pensiamo ai primi cinque minuti di film: Doyle si lancia immediatamente in un’appassionata e struggente poesia musicale, con gli archi e i violini che raggiungono i loro registri più alti. Carlito and Gail è invece una tenera melodia suonata al pianoforte che riesce a dipingere un ideale di amore lontano, di desiderio e rimpianto. Laline è ancora un pezzo diverso: musica jazz per sax, pianoforte, percussioni e basso. Una colonna sonora varia, piena di intuizioni non solo musicali, ma anche emotive ed emozionanti, al pari del bellissimo film che commenta.
La canzone però che più di tutte resta impressa nella memoria è la romantica You Are so Beautiful di Joe Cocker, versione più lounge e lenta di una hit di Billy Preston e Bruce Fisher. Marc Lee del Daily Telegraph, nel recensire, ad esempio, l’album di Cocker I Can Stand a Little Rain del 1974 – che conteneva il brano – apprezzava l’inizio contemplativo della canzone, accompagnato solo dal pianoforte, seguito da «archi lussureggianti», capaci di «travolgere e trasportare l’artista in un’estasi appassionante». Cocker, secondo il critico musicale, riusciva ad essere in You Are so Beautiful allo stesso tempo gentile e «gloriosamente emozionante».
Carlito’s Way raccoglie tutte queste vibrazioni e sembra incarnare, nell’amore passionale e romantico dell’ex gangster e della sua donna, le note della canzone di Preston e Fisher, come se questa fosse stata scritta solo per il film di De Palma. Noi spettatori, duri e dagli occhiali a goccia, come nel più classico dei classici film tamarri, Cobra, non possiamo che ammettere che nell’occhio ci è entrato più di un bruscolino perché, si sa, che i veri uomini non piangono mai. Lo dicono anche i Cure.
IN ITALIA
Lucio Fulci è conosciuto per la sua carriera negli horror (il soprannome coniato all’estero per lui è Godfather of Gore, il padrino dello splatter), soprattutto per un pugno di pellicole girate a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta (Zombi 2, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero). Fulci però era «un terrorista dei generi», capace di spaziare ed eccellere in ogni genere, dalla commedia con Franco e Ciccio (I due parà), a quella con Lando Buzzanca (Il cavalier Costante Nicosia demoniaco ovvero Dracula in Brianza), fino a toccare la fantascienza politica (I guerrieri dell’anno 2072), il fantasy (Conquest), l’erotico (Il miele del diavolo) e il western (suo il bellissimo I quattro dell’apocalisse, tratto da una serie di racconti dello scrittore e poeta Bret Harte). Senza dimenticare che uno dei nostri thriller italiani più struggenti, selvaggi e anarchici, è suo: Non si sevizia un paperino (1972), un atto d’accusa neppure troppo velato contro la repressione della chiesa. Marco Giusti nel suo recente Tutti i film di Franco e Ciccio (Bloodbuster edizioni) lo definisce «un maestro», ha estimatori in tutto il mondo, da Clive Barker a Quentin Tarantino, e ancora oggi si scrivono saggi sul suo cinema, come l’essenziale Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci di Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore (Leima, 2015). Il suo rapporto con la musica è probabilmente ancora poco studiato, ma a inizio carriera, il nostro diresse alcuni musicarelli come l’interessante e pirandelliano Uno strano tipo (1963) con un imberbe Adriano Celentano.
«Ho sempre amato la musica, specialmente il jazz – dichiarò nel saggio L’occhio del testimone di Michele Romagnoli (Granata Press, 1992) -. Da giovane lo suonavo e ci studiavo veramente sopra. I miei film soprattutto gli ultimi, peccano un poco di colonna sonora, colpa di budget ridotti che hanno portato a composizioni di musica per lo più elettronica (…) In Manhattan Baby, un film forse leggermente sottotono, c’era una musica indovinata, eseguita da un sax solo che faceva malinconia. Senti quella musica giorno e notte, suonata, per le strade di New York, da girovaghi e vagabondi».
Una delle sue opere meno conosciute è un noir poliziesco, del 1980, Luca il contrabbandiere. Il cinema di crudeltà autardiana di Fulci è al suo massimo, ancora prima di essere il marchio di fabbrica del regista. Si pensi alla scena dello stupro di Ivana Monti ascoltata al telefono da un impotente Fabio Testi: l’uomo non si dispera, sgrana gli occhi, quasi assapora il dolore in una sorta di amplesso voyeuristico, si limita a dire no, ma né prima né dopo lo vediamo esternare la sua tragedia in un pianto umano.
In Luca il contrabbandiere c’è una violenza insistita, superiore a qualsiasi noir/poliziesco girato prima o dopo, da vero horror splatter alla Fulci, con la nebbia tipo Fog che vomita assassini come zombi, con la solfatara di Pozzuoli che diventa la vasca dell’aldilà che divora e modella i corpi in ottiche surrealiste, con la calotta cranica che schizza orribilmente all’aria come in Paura. La colonna sonora è una delle più ispirate di Fabio Frizzi: il tema principale è una meravigliosa melodia piena di melodramma, dalle tonalità molto funky. Si alternano elementi orchestrali tradizionali con la chitarra elettrica e l’amato sax del regista, mantenendo sempre una certa tensione di fondo. In mezzo a un’orgia di sangue e violenza il «malefico duo» Fulci/Frizzi riesce persino a farci ballare al ritmo dell’orecchiabile You Are not the Same, una disco dance scatenata.
IN RUSSIA
Da noi uscì come Brother, nel 1997, e il suo seguito come Il fratello grande, nel 2000. Sono pellicole che graffiano, lasciano aperte le ferite di guerra e portano il cinema russo a una dimensione d’intrattenimento intellettuale che non riuscirà a generare emuli altrettanto efficaci, non nel cinema del paese, non nella filmografia del suo autore, Aleksei Balabanov. Il protagonista Danila emerge sulle note dei Nautilus Pompilius e della struggente Kryl’ja (Le ali), una canzone che parla di angeli caduti e ferite difficili da rimarginare. Musica e immagini viaggiano insieme in un mix incredibile di idee potenti, sublimate soprattutto dalle musiche dei Nautilus Pompilius, una tra le band più influenti in ambito post punk e new wave della musica rock russa e che, casualità, si scioglierà proprio in quel 1997 che accompagna il viaggio del protagonista alla ricerca della sua identità. Dopo questa pellicola niente sarà lo stesso nel cinema russo, si continueranno a girare film ovviamente, alcuni bellissimi diretti dallo stesso Aleksey Balabanov come Cargo 2000, ma nessuno così iconico.
IN GIAPPONE
Spostandoci in Giappone, possiamo trovare lo stesso connubio amicizia/criminalità in molti pregevoli prodotti noir/polizieschi con star come Sonny Chiba sotto la sapiente regia di Kinji Fukasaku. Uno dei loro lavori meno conosciuti, ma tra i più esaltanti, è lo scatenato Tokyo Gang del 1993, che anticipa tutto il cinema di Rodriguez e Tarantino che, da lì a poco, esonderà nei cinema di tutto il mondo. Ci sono rapine, tradimenti e un gusto deliziosamente pulp nel ritrarre i personaggi dei vari villain con un registro che si sposta con grazia dal grottesco allo spietato, dal realismo all’iperrealismo fumettistico. Tokyo Gang è una gioia per gli occhi: divertente, colorato e ottimamente ritmato. La colonna sonora, urlata e pacchiana, è della band metal Jacks ‘N’ Joker, un lavoro capace di riprendere nelle sonorità lo spirito stralunato della pellicola, sopra le righe e schizofrenico. Il giro di chitarra di Bad Friends è un grande momento di musica rock anni Novanta, non dissimile, nell’esibizione di Tatsuya «Tatsu» Shinozaki, dalle perfomance di Slash dei Guns N’ Roses. A chiudere la suadente voce di Masahiro «Nixx» Nishizawa, calda e piena di vibrazioni, perfetta per trasportare gli spettatori tra le strade violente di una Tokyo mai così pop.
Per chiudere però non si può non citare in questa rassegna di belli, criminali e dannati, il videogame nipponico Yakuza che vede le gesta del Drago di Dojiima, Kazuma Kiryu, e della sua scalata al potere nei ranghi della mafia. Ben 9 capitoli, diversi remake e spin off, la serie si presenta come un grandissimo successo mondiale, capace di contrastare, anche in tempi recenti, la supremazia, negli open world, del colosso statunitense Gta. Yakuza, fin dal suo esordio su Ps2, nel 2005, ha saputo imporsi con uno stile unico, grazie ad un approccio al mondo narrativo più scacciapensieri, permettendo al videogiocatore di provare vecchi cabinati, cantare nei karaoke o intrattenersi con signorine dai facili costumi. Questo ha reso Kazuma Kiryu non un semplice personaggio fittizio, ma un vero amico da aiutare nella sua missione; così il pubblico si è trovato immerso in un universo colorato, folle e vicino come possibilità al mondo reale. Yakuza, negli ultimi anni, ha svecchiato la sua formula, aumentando nettamente la componente grottesca, con il cambio del titolo, ora Like a Dragon, e un nuovo protagonista, Ichiban Kasuga, più ciarliero, ingenuo, ma non per questo meno iconico di Kazuma Kiryu. Yakuza 0, prequel dell’intera saga, tra tutti i capitoli è quello però che presenta la migliore colonna sonora, uno degli accompagnamenti musicali più riusciti per un videogioco. Composta e realizzata da numerosi artisti, fra cui il veterano Hidenori Shoji, la soundtrack vede al suo interno alcuni dei brani più famosi del franchise, come per esempio i celeberrimi Baka Mitai, presente anche in versione jazz, e Friday Night, fortemente ispirata alle canzoni europop Into the Night e Give Me Up , entrambe di Michael Fortunati. Tutto così affascinante da essere appunto emulabile. Questo d’altronde è il male.
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