Si parte da una constatazione. In genere il jazz, come varie forme d’arte, viene percepito (e proposto) in modo diacronico: molte storie della musica di matrice afroamericana illustravano i vari stili uno dopo l’altro, come se morto il bebop nascesse l’hard bop, oppure seppellito il jazz elettrico anni Settanta si tornasse a quello acustico di impostazione modale. Tutto ciò sorvolando sulla contemporaneità e intersezione tra uscite discografiche, programmazione concertistica e sulla viva e pulsante attività jazzistica.
In una visione più realistica e approfondita il jazz va percepito in una visione sincronica: vari stili e tendenze, come le stagioni produttive (e le vicende biografiche) di gruppi e singoli musicisti, convivono e solo a posteriori si riesce, non sempre, a individuare un’eventuale «nuova frontiera» sonora. Una prova sperimentale di quanto sopra illustrato si può avere operando una sorta di «carotaggio» nella produzione discografica jazz e, nel nostro caso, lo si può fare scegliendo anni e ricorrenze: 1952, 1962, 1972, 1982, 1992, 2002. Proviamo a sondare e non mancheranno sorprese.

1952
Nel secondo anno del decennio Charlie Parker è ancora ben vivo (morirà nel 1955) e si sta determinando la rivoluzione del long playing. La «vulgata storica diacronica» ci dice che in questo decennio si impongono l’hard bop, il jazz californiano e la carismatica quanto trasversale figura di Ray Charles ma la realtà è molto più sfrangiata. «Tra la primavera avanzata e l’estate del 1952 il vocalese fece la sua prima, formidabile apparizione nei jukebox e nelle hit parade delle città nere con Moody’s Mood for Love di King Pleasure, fantasiosa traduzione in parole dell’assolo del sassofonista James Moody sulla stagionata ballad I’m in the Mood for Love» (L. Federighi, in Giuppi Paone, I poeti del vocalese, Palermo 2009, p. 7). L’etichetta Prestige non pubblica un lp ma un singolo con due facciate; sul lato B c’è Exclamation Blues sempre di Pleasure il cui vero nome è Clarence Beeks ed ha trent’anni. Fa da apripista a un jazz di «oralità secondaria» in cui si creano dei testi basati su assoli (a volte anche melodie) di brani jazz, pratica manipolatoria e creativa che nasce dalla strada e che ha un successo da capogiro (anche il surreale Twisted di Annie Ross è del 1952): porterà ai vertici espressivi del trio Lambert, Hendriks and Ross e, decenni più tardi, al manierismo dei Manhattan Transfer.
Alla fine dello stesso anno, in dicembre, entrano in studio di incisione a New York i jazzisti afroamericani Milt Jackson (vibrafono), John Lewis (piano), Percy Heath (contrabbasso) e Kenny Clarke (batteria). Registrano quattro pezzi e completano la seduta nel giugno 1953. Il long playing (etichetta Prestige) intitolato Modern Jazz Quartet esce nello stesso anno e comprende quattro standard riarrangiati (All the Things You Are, Rose of the Rio Grande, Autumn in New York, But Not for Me) e quattro brani originali di Lewis: La Ronde Suite, Vendôme, The Queen’s Fancy, Delaunay’s Dilemma. Si può, quindi, considerare il 1952 l’anno di debutto del Modern Jazz Quartet che vede un enorme successo dell’album, anche se l’inizio dell’attività concertistica sarà nel 1954. Lewis (studioso di musica europea, antropologo, brillante pianista bop) e Jackson (vibrafonista bop della prima ora, collaboratore di Monk) costruiscono il quartetto sulla dialettica tra composizione e improvvisazione, sull’integrazione fra forme della musica europea e linguaggio jazz, alla ricerca di un equilibrio e di un’eleganza lontane dall’hard bop. Il gruppo resterà insieme fino al 1974 incidendo varie pagine significative della cosiddetta Third Stream Music.
Traferiamoci sulla West Coast, a Los Angeles, dove nel 1952 nasce, un po’ per caso e un po’ per scelta, una formazione senza pianoforte con Gerry Mulligan (sax baritono), Chet Baker (tromba), Carson Smith (contrabbasso) e Chico Hamilton (batteria). Mulligan ha 25 anni, Baker 23: l’assenza di sostegno armonico dà loro una grande libertà solistica che sfocia in un contrappunto improvvisato di rara bellezza. Dai locali il passo agli studi di incisione della Prestige è breve: l’album Gerry Mulligan/Chet Baker fissa su vinile il loro repertorio costruito su brani dell’immaginifico Mulligan (Bark for Barksdale, Line for Lyons, Turnstile) e riusciti arrangiamenti da Carioca a The Lady Is a Tramp ma soprattutto My Funny Valentine, una vera hit. Il quartetto pianoless sarà imitatissimo nell’area del cosiddetto jazz californiano.

1962
A 36 anni (essendo nato nel 1926) John Coltrane è all’apice della sua carriera che si concluderà prematuramente nel ’67. È sotto contratto per la prestigiosa Impulse, ha realizzato nel 1961 un capolavoro quale l’album Africa Brass (con il lungo, ispirato brano Africa) e pubblica a inizio 1962 il Live at Village Vanguard con Eric Dolphy membro del suo quintetto. È un disco molto avanzato, forse troppo per pubblico e critica; così «Bob Thiele, produttore di Coltrane alla Impulse, decise che era il momento di mettere in mostra il lato più accessibile dell’arte del sassofonista. Nel settembre 1962 lo accoppiò con Duke Ellington in quartetto (…)» (Lewis Porter, Blue Trane, Roma 2006, p. 296). Nasce così Duke Ellington & John Coltrane, registrato dal mago del suono Rudy Van Gelder, con le due star accompagnate da Aaron Bell, Jimmy Garrison (contrabbassi), Sam Woodyard ed Elvin Jones (batterie) in varie combinazioni.
«Sono veramente onorato di avere l’opportunità di lavorare con Duke. È stata una magnifica esperienza», racconta Coltrane, sempre umile e modesto, nelle note di copertina. Tra i due corre una generazione piena di differenza: il bandleader è del 1899, ha 63 anni e potrebbe essere il padre del sassofonista. Eppure Duke è un artista integro e sorprendente, capace di relazionarsi con gli avanguardisti mantenendo la sua personalità anche se cerca territori comuni. L’album si apre con una lunare versione di In a Sentimental Mood in cui il brano ellingtoniano viene essenzializzato pur mantenendo intatta la sua poesia; nel successivo Take the Coltrane Duke offre a Trane la possibilità di esprimere il suo torrenziale solismo a «sheets of sound». L’album va avanti su queste due direttive e l’operazione strategica di Thiele si trasforma in un capolavoro.
Nel 1962 Duke Ellington dà ulteriore prova di essere ancora, e sempre, un gigante della musica: in una visione diacronica giacerebbe, invece, sepolto nelle glorie del suo passato. Il produttore Alan Douglas si spende per una seduta di registrazione con Charlie Mingus (contrabbasso) e Max Roach (batteria), prodotta dalla Blue Note con il titolo Money Jungle. Gli otto brani eseguiti sono tutti di Duke che si conferma pianista modernissimo nell’interplay con una ritmica favolosa. Lo struggente lirismo di Fleurette africaine si sposa con l’espressionistica versione di Caravan in cui l’esotico brano, scritto negli anni Trenta con Juan Tizol e Irving Mills, viene attualizzato con riferimenti a Monk e Cecil Taylor.
È un gigante, un «saxophone colossus» anche se ha solo 32 anni, Sonny Rollins. Ma è dal 1960 che è sparito dalla scena jazzistica, colpito dal linguaggio di Coltrane e di Ornette Coleman. Medita, ricerca, suona, spesso sotto il ponte di Williamsburg a New York. Finché un giorno il sassofonista tenore e compositore si sente pronto e bussa agli studi newyorkesi della Rca, intenzionato a registrare un nuovo album che spezzi il temporaneo silenzio. Siamo a metà febbraio 1962 e la seduta di incisione genera un disco che si intitola semplicemente The Bridge, un album «di una grande serenità, equilibrato, quasi raccolto» secondo le parole del critico francese François Marmande. Insieme all’inconfondibile chitarra di Jim Hall, al contrabbasso di Bob Cranshaw e alla batteria di Ben Riley, il sassofonista allinea cinque brani con la title-track dalla linea melodica scattante e sinuosa e una magistrale, commovente versione di God Bless the Child. Quello che l’autrice Billie Holiday faceva con la voce, Rollins lo fa con il suo sassofono passionale, oratorio, scultoreo.

1972
Se si parla di jazz elettrico la via, come è storicamente e criticamente assodato, viene aperta nel 1969 dal doppio Columbia Bitches Brew di Miles Davis, alla guida di un nutrito ensemble, primo album jazz registrato su più piste (otto, per l’esattezza). Il Dark Magus continua la sua rivoluzionaria strada ma, via via, i musicisti che ha coinvolto si allontanano dalla «navicella madre» e orbitano in libertà. Chick Corea, Keith Jarrett, Joe Zawinul, Wayne Shorter, John McLaughlin, Herbie Hancock… si distaccano per navigare in nuovi territori sonori, accolti da un pubblico sempre più giovane e numeroso.
Il gruppo più duraturo e innovativo è quello dei Weather Report, fondato da Zawinul e Shorter nel 1971, la cui prima hit discografica è I Sing the Body Electric (1972, Columbia Cbs). Il lato A viene registrato negli studi newyorkesi dell’etichetta tra l’agosto ’71 e il gennaio ’72; il lato B proviene da un’esibizione live sempre del gennaio ’72, a Tokyo. I due leader firmano gran parte dei brani ma anche il contrabbassista Miroslav Vitous dà un importante contributo (Crystal, Vertical Invader). Il gruppo base vede Zawinul (keyboards), Wayne Shorter alle ance, Vitous, Eric Gravátt alla batteria, Dom Um Romão alle percussioni, con vari ospiti tra cui Ralph Towner e Hubert Laws. Le tradizionali forme jazzistiche sono dissolte: si lavora su ampie strutture orizzontali, organizzate combinando dimensione ritmica e timbrica, utilizzando suoni elettronico-acustici che evocano spazialità, futuro, nuovi orizzonti, altre dimensioni. Del resto il titolo dell’album è ripreso da una raccolta del 1969 di storie brevi di Ray Bradbury, uno dei più visionari scrittori di fantascienza. Il futuro del jazz e dell’umanità scorre nei solchi dell’album.
Ha un’altra idea di domani, più metropolitana con sfumature introspettive, il chitarrista e compositore inglese John McLaughlin, dal 1970 discepolo del guru Sri Chinmoy. Dal ’71 al ’73 guida il quintetto Mahavishnu Orchestra che produce una musica oscillante tra acceso (o meditato) spiritualismo e avanzata-adrenalica esplorazione della dimensione strumentale elettrica, tra chitarre double-board, basso, tastiere, moog, violino elettrico (più la batteria di Billy Cobham). Il secondo album è l’incendiario Birds of Fire (Columbia Cbs), uscito nel 1973 ma registrato tra Londra e New York nell’agosto 1972. McLaughlin, autore di tutti i brani, guida una band con Jerry Goodman, Jan Hammer, Rick Laird e Cobham. Miles Beyond è un sentito omaggio a Davis, dopo l’ipercinetica title-track e le composizioni sono giocate sul filo di una complessa scrittura che libera, però, un corposo potenziale improvvisativo con sfumature rock. Alcuni momenti sono acustici e meditativi, come il toccante Thousand Island Park, che prefigura le future esperienze di Shakti.

1982
Ha solo 21 anni nel 1982 Wynton Marsalis ma da quando ne aveva 6 ha una tromba in mano. Nel 1981 ha fatto parte del quartetto con Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, incarnando la parte di Miles Davis (anni Sessanta), Miles che è tornato sulle scene ma suona la musica del presente e del futuro, non quella del «suo» passato. Marsalis, invece, è il giovane eroe di un jazz che – dopo tante sperimentazioni – desidera tornare a un linguaggio e a un modello riconoscibile, non ibridato. Lo vuole una parte del settore jazzistico, dei musicisti, dei critici e lo vuole anche l’industria discografica, convinta di vendere meglio e di più se l’etichetta «jazz» corrisponde a un target sonoro (e di pubblico) preciso, specie nella nuova era del cd.
Chiamatelo neo hard bop, neoclassicismo jazz, «marsalismo» ma il fenomeno c’è, eccome. Quindi, a proposito di sincronia, mentre Miles sperimenta la sua nuova miscela electro pop, altri artisti suoi coetanei e/o molto più giovani si rifanno al linguaggio del quintetto davisiano anni Sessanta per creare in un preciso solco che non rinunci a forme definite, swing e dimensione acustica.
Il primo album del trombettista di New Orleans si chiama con il suo nome, Wynton Marsalis (Columbia Cbs) ed esce nel 1982, inciso tra Tokyo e New York. Tre brani sono dell’enfant prodige, uno ciascuno per Hancock, Carter e Williams più una ballad. Al tenore e soprano il fratello Branford; al piano, Hancock si alterna con Kenny Kirkland, come fa Carter con altri due contrabbassisti e Tony Williams, che divide le bacchette con Jeff Watts. In musica e in parole (linear notes di Stanley Crouch) si delinea un confine tra «jazz» e «non jazz»: la musica è, comunque, di altissimo livello.

1992
Sono stati, sinora, ricordati e analizzati album di jazz statunitense. Per il nono decennio del XX secolo ci si spinge anche in Gran Bretagna, perché – oltre alla dialettica «sincronico-diacronico» – è importante sottolineare la mondializzazione/globalizzazione del jazz, iniziata negli anni Sessanta e giunta a vari esiti.
Negli Usa il clarinettista e compositore afroamericano Don Byron pubblica, a due anni dall’incisione, il suo cd Tuskegee Experiments (Elektra Nonesuch). Byron, nel titolo e nella title-track, fa riferimento a un esperimento clinico, svolto dalla sanità pubblica tra il 1932 e il ’72, sull’evoluzione della sifilide non curata su un campione – inconsapevole e non informato – della popolazione maschile nera in una città dell’Alabama. La musica si innesta sulla narrazione del poeta Sadiq e racconta il terribile episodio di razzismo in cui i neri vennero usati come cavie. Un altro brano è dedicato al pittore e muralista messicano comunista Diego Rivera. Insomma Byron ha le idee chiare e il suo schierarsi crea un jazz all’avanguardia e di alto profilo, nutrito da collaborazioni come quella con Bill Frisell e da riferimenti quali Robert Shumann e Duke Ellington.
Attraversiamo l’oceano Atlantico nel senso inverso di quello percorso dalla nave Mayflower con a bordo i padri pellegrini nel 1620 (fondatori di una delle prime colonie inglesi in Nordamerica). Nel 1992 si crea a Londra un’ampia formazione a carattere cooperativo e senza fini di lucro: The Dedication Orchestra. Un grande numero di musicisti inglesi (da Mike Westbrook a Keith Tippett) vuole pagare il debito di riconoscenza nei confronti dei jazzisti sudafricani che animarono la scena anglosassone ed europea dagli anni Sessanta: Dudu Pukwana, Mongezi Feza, Harry Miller, Johnny Dyani e Chris McGregor. Lo fanno con il progetto-album Spirits Rejoice (Ogun) in cui lo straordinario repertorio di quei musicisti autoesiliatisi dal Sudafrica dell’apartheid viene arrangiato per grande orchestra e riproposto nella sua abbacinante forza e bellezza. Da Traumatic Experience a Woza con arrangiamenti originali (Tippett, Westbrook, R. Malfatti, K. Wheeler, D. Bates, J. Warren, J. Dvorak) la musica di quegli artisti, tutti scomparsi, rivive sotto la guida del sopravvissuto batterista Louis Moholo. I profitti dell’album e di alcuni concerti vanno in Sudafrica, trasformati in borse di studio per giovani e talentuosi musicisti: si chiude un cerchio, virtuoso.

2002
Ha 27 anni il pianista ecompositore Jason Moran (interessato a multimedialità e installazioni teatrali) quando pubblica Modernistic (2002, Blue Note), uno spregiudicato e coraggioso album in piano solo. Ci sono varie composizioni originali ma anche riletture di James P. Johnson, una versione di Body and Soul, Planet Rock di Afrika Bambaataa, un lied di Shumann e un pezzo da Muhal Richard Abrams, padre della chicagoana AACM. «Se mai erano sussistiti dubbi sulla spinta di Moran ad allargare la struttura portante della performance jazz – in termini di materiali, di portata storica e di espressione personale – Modernistic chiuse la partita con decisione». Lo afferma Nate Chinen in La musica del cambiamento. Jazz per il nuovo millennio (Milano 2018, p. 133), un testo che combatte – dati e dischi alla mano – la tesi che il jazz sia morto.
Nel 2002 l’altista Tim Berne ha 48 anni ma si muove su lunghezze d’onda parallele a quelle di Moran e nel solco di un’esuberante, espressionistica vitalità jazzistica. Più che un compositore si considera un «organizzatore di feeling e di atmosfere» e, da sempre, persegue un’autonomia anche organizzativo-discografica. Con la sua etichetta Screwgun pubblica l’album Science Friction (2002), con una musica dalle ricche polifonie (si è parlato di «avanguardia dixieland»). Vi agisce, racconta ancora Nate Chimen, «un quartetto favoloso, privo di basso (…) imperniato sullo sferzante interscambio tra le tastiere elettriche di Craig Taborn, un batterista in grado di imporsi (Tom Rainey) e un chitarrista elettrico incandescente (Marc Ducret)». Come in altre esperienze, Tim Berne cerca e trova un suono di gruppo a base di improvvisazioni collettive, con esiti che – ascoltati oggi, vent’anni dopo – stupiscono ancora per l’ispirazione e la qualità. «Il jazz – scrive Ashely Kahn nella prefazione al libro di Chimen – è sempre stato una musica del momento».