In un passo di Di là dal fiume e tra gli alberi Hemingway ritrae il suo protagonista (e alter ego), il colonnello Cantwell, a cena al Gritti con la sua ragazza veneziana. Il maître gli indica a un tavolo sull’altro lato della sala la presenza di un celebre «compatriota», goffo e dal viso «butterato», che «scrive tutta la notte». Il colonnello commenta: «Questo dimostra che è attivo, anche se è sopravvissuto al suo talento». Una battuta fulminante per delineare un ritratto che si colora di altre perfide sfumature nel corso della cena. Hemingway non risparmia lo sberleffo ai danni del suo anonimo compatriota in un romanzo che lo va avvicinando alla meta del Nobel, ottenuto nel 1954 dopo la pubblicazione di Il vecchio e il mare. Si tratta di uno dei suoi soliti raptus di malevolenza? Sì, anche se nel caso del collega in questione non era il solo a pensarla poco bene: un uomo (e uno scrittore) senza distinzione, un po’ come il suo personaggio più popolare. La scenetta, ritoccata in meglio, corrisponde alla realtà, e pare che fu la moglie, Mary Hemingway, a pronunciare parole ancor più velenose, nelle quali l’accenno al «talento» suona solo irrisorio. Lì al Gritti, intorno al 1950, cenava Sinclair Lewis, primo premio Nobel americano nel 1930, una scelta già allora molto discussa. Alcolizzato e ormai in declino, da Venezia Lewis si sarebbe spostato a Roma, dove morirà in una clinica di Monte Mario nel gennaio del 1951. Il de profundis di Hemingway arrivava giusto in tempo.
Nato nel 1885 nel piccolo avamposto di Sauk Centre, nel Minnesota, Lewis, svogliato studente a Yale, abbrevia le tappe della sua formazione per dedicarsi a un’attività letteraria sulle pagine dei giornali. Uomo irrequieto, a disagio con se stesso e con la sua acne perpetua, malato di nomadismo sul territorio nazionale e poi tra America e Europa, fu scrittore prolifico e istintivo (da giovane vendeva trame a Jack London: si dice), ma dallo stile debole e un’ottica limitata. Resta autore di oltre venti romanzi di cui solo cinque hanno resistito all’oblio; e di questi cinque solo due – Main Street del 1920 e Babbitt del ’22 – si distinguono come rappresentativi di un’epoca e una realtà culturale e geografica (il Midwest) in mutazione (da rurale a industrializzata), che egli seppe cogliere, se non con grandi invenzioni moderniste, per lo meno con singolare spirito satirico e una buona dose di verità. In Italia i suoi romanzi furono accolti ancor prima dell’opera di scoperta della letteratura americana promossa da Vittorini e Pavese: complice il Nobel. Adesso Mattioli 1885 rilancia Babbitt in una nuova traduzione di Luca Crescenzi (pp. 466, euro 18,00), una proposta opportuna al fine di avvistare un possibile riposizionamento di uno scrittore di successo, forse troppo presto condannato in cantina da un Nobel che fece invidia a molti, e da un se stesso che non era riuscito a liberarsi della maschera di mediocrità da lui assegnata al cittadino medio americano: il babbitt, appunto, termine entrato nel dizionario anglosassone per indicare il conformista, lo scalatore sociale, il profittatore del business, il filisteo: un uomo senza qualità.
Se la cittadina di Gopher Prairie di Main Street è facilmente riconducibile al luogo natale di Lewis, la Zenith di Babbitt – come fa intuire il nome un po’ pretenzioso – pare modellarsi su centri più quotati del Midwest, per esempio Cincinnati nell’Ohio, la terra di Sherwood Anderson, i cui racconti di Winesburg erano apparsi nel 1919. Ma lì dove Anderson guardava con occhio lirico a una cultura di valori umani in estinzione, Lewis compiva un’operazione inversa: non intendeva dar voce a rimpianti per l’eredità rurale del West americano, esaltata in quegli stessi anni da F. Scott Fitzgerald (anche lui nato nel Minnesota), ma esponeva il materialismo dilagante, figlio della «Progressive Era» dei primi due decenni del secolo, che apriva a tutti i pretendenti uno spazio da sfruttare a favore degli affari, l’urbanizzazione, la crescita tecnologica, il capitalismo industriale, il vantaggio personale: il cosiddetto «boosterism», da Lewis studiato in un suo soggiorno a Cincinnati. In questo senso, rispetto ad altri narratori del West, la sua consapevolezza storica risulta oggi più realistica e meno illusoria, in quanto infrange definitivamente il mito oleografico di una purezza western (genocidio degli Indiani a parte) ormai non più recuperabile. D’altro canto, come si sa, il Grande Gatsby di Fitzgerald è destinato a morire, quasi ad ammettere la fine del sogno pastorale (idealistico e visionario) che lo aveva generato.
Al suo posto prospera l’immobiliarista George F. Babbitt, al quale non c’è nulla di «grande» che si possa attribuire, se non la non comune abilità di vendere case a un prezzo superiore a quello che la gente può permettersi (e, di conseguenza, si pensi al tracollo del 1929). Giunto alla mezza età, Babbitt, uomo del ceto medio che ha scoperto i mezzi per farsi strada al momento giusto, può vantare un successo negli affari, una bella casa, una macchina e una famiglia rispettabile, ma tutto al prezzo di un piegarsi supinamente alle regole del gioco di una cieca (e non etica) obbedienza agli imperativi dell’efficienza e del denaro, non scindibili dai loro status symbol, rappresentati dal distintivo del «Booster’s Club» senza il quale la mattina Babbitt non esce di casa. Nonostante alti e bassi, qualche frustrazione subìta dalla stessa società in cui ha navigato bene, e sogni di evasione da una routine monotona – il contatto rigenerante con la natura (significativamente nel Maine non nell’Ovest) e il miraggio ricorrente di una ragazza di innocente freschezza –, Babbitt resta fino alla fine un ometto che, pur avendo fiutato l’inganno su cui ha impiantato la sua vita, non osa distaccarsi dal codice del qualunquismo, perché, se lo facesse, sarebbe un perdente.
Sinclair Lewis accompagna la nascita di questo nuovo mezzo eroe (da non confondere con l’affarista geniale immortalato da Theodore Dreiser) con il sogghigno della satira, che non lo legittima ma lo introduce con autorevolezza e simpatia nel circolo della comunicazione sociale. E si accinge a costruire la nuova creatura facendola esordire sulla scena proprio con il rituale della vestizione mattutina, iniziando dagli occhiali, utili al lettore, perché, sotto il velo della canzonatura, riesca a vedere meglio. Sono occhiali con «enormi lenti rotonde d’ottimo cristallo, prive di montatura e, come stanghette, due sottili barrette d’oro»; sono loro a fare di Babbitt «il ritratto dell’uomo d’affari moderno, che comanda a bacchetta gli impiegati, guida l’automobile, di tanto in tanto gioca a golf, ed è un fenomeno patentato nell’arte del vendere», quando assume un volto che non ha «più nulla di infantile» ma diventa «importante». Coadiuvato dalla «sua uniforme da borghese rispettabile e concreto» consistente di un abito «in serie», Babbitt esibisce un’unica nota «frivola» solo in apparenza: una cravatta di maglia viola, fermata «da una spilla a testa di serpente con occhi di opale». Recuperati altri «oggetti sacri», per lui d’importanza «capitale, come il baseball o il Partito Repubblicano», Babbitt infine si arma di penna stilografica e matita d’argento, senza le quali «si sentiva nudo». Sinclair Lewis lo ha brillantemente battezzato e vestito questo uomo nudo. Forse figlio di strenui contadini che ha cambiato la muta (sappiamo poco o niente del suo passato), Babbitt, il booster, si avvia alla sua giornata di lavoro. Non lo seguiremo oltre il cancello di casa. Grazie a un piatto conformismo, il dandy di antica memoria si è riciclato in un ridicolo travet ma con molti più soldi in tasca.