E’ passato più di un quarto di secolo da quando Toni Morrison, sulle pagine della «Paris Review», incoraggiava gli autori neri a non assoggettarsi ai codici stilistici dominanti, e a liberare il linguaggio «dalla camicia di forza del razzismo», provocando e illuminando il lettore senza necessariamente ricorrere alle armi dei deboli: «La petulanza. Il veleno. Le chiacchiere».
Nella sua recente raccolta di scritti, The Source of Self-Regard, l’autrice di Beloved ribadisce che il compito dello scrittore è ora più che mai quello di risvegliare la popolazione dal «coma che i despoti chiamano pace», poiché la sua voce è particolarmente scomoda «per il bullo ignorante, per il razzista subdolo e per tutti quei predatori che si nutrono delle risorse della terra».

Tra frustrazione e rabbia

L’ultimo, ma solo in ordine di tempo, a rispondere alla chiamata è Nana Kwame Adjei-Brenyah: nato a Spring Valley (NY) nel 1991 da genitori di origine ghanese, è autore di uno spericolato libro d’esordio, Friday Black (Sur, pp. 200, euro 16,50) dodici racconti vigorosi e immaginifici che restituiscono un caleidoscopio distopico della società americana contemporanea. La prosa incalzante, esaltata dall’ottima traduzione di Martina Testa, avviluppa completamente il lettore riuscendo a disorientarlo e a sradicarlo con violenza dalla propria comfort zone.

Adjei-Brenyah fa tesoro della lezione di Morrison, che definisce in un’intervista «una dea scesa in terra», e affronta direttamente temi controversi come il razzismo, l’uso indiscriminato di armi da fuoco, la dipendenza dalla tecnologia, il bullismo tra gli adolescenti, l’aborto, il disagio economico che paradossalmente si accompagna a un iperconsumismo malato e disfunzionale, e li distorce in chiave post-apocalittica, fantascientifica, grottesca, orrorifica.

Ogni pagina gronda frustrazione e rabbia, la rabbia di chi cerca disperatamente di mantenere un atteggiamento umano in un mondo sempre più brutale e impersonale, dove la giustizia coincide con la vendetta e proteggere i propri cari equivale ad aggredire preventivamente l’altro, l’estraneo, il diverso. Questa materia incandescente si condensa nel disarmante candore di voci narranti – commessi alienati di grandi magazzini, adolescenti sopravvissuti all’apocalisse, aspiranti scrittori incatenati al crudele Dio della scrittura – che si esprimono con una sincerità tale da rasentare la crudeltà; il loro umorismo graffiante, autoironico, e la forza empatica con cui descrivono le vicende rimandano ai migliori racconti di George Saunders, di cui non a caso Adjei-Brenyah è stato allievo.
Significativamente, molti tra gli scenari più grotteschi o inverosimili traggono spunto da esperienze dell’autore o da fatti di cronaca, per esempio nel racconto di apertura, «I 5 della Finkelstein»: un uomo decapita con una motosega cinque ragazzini all’uscita di una biblioteca perché in quel momento «ha creduto di essere in pericolo», e in America, afferma l’avvocato difensore, «se uno crede in qualcosa, in qualunque cosa, l’importante è quello. Crederci».

Sparare per finta
Il racconto si ispira all’omicidio di Trayvon Martin, il diciassettenne afroamericano ucciso con un colpo d’arma da fuoco il 26 febbraio 2012 a Sanford, in Florida; l’assassino, George Zimmerman, un vigilante che aveva giudicato «sospetto» l’adolescente a passeggio per il quartiere, è stato poi assolto per legittima difesa. Proprio questa vicenda ha spinto Adjei-Brenyah a dedicarsi alla scrittura, prima con pamphlet che denunciavano la natura discriminatoria del sistema giudiziario statunitense e poi con questi racconti, inizialmente pubblicati su rivista. L’episodio seminale dell’omicidio è presente in filigrana anche in «Zimmer Land» (che già nel titolo contiene un riferimento al cognome dell’assassino): l’autore immagina un parco divertimenti à la Westworld, dove i visitatori possono divertirsi a giustiziare per strada ragazzi neri (attori protetti da una meccanotuta potenziata) in modo da ricreare «quel momento viscerale, intenso, da pugno nello stomaco, in cui la giustizia richiede di prendere l’iniziativa». Ma Adjei-Brenyah è attento a problematizzare ogni punto di vista senza mai scadere nel semplicistico manicheismo: se il narratore del primo racconto si unisce con riluttanza a una banda che vendica gli omicidi dei bambini uccidendo brutalmente persone innocenti, il protagonista di «Zimmer Land» risponde alle critiche sulla liceità dell’intrattenimento offerto dal parco chiedendo se non sia meglio farsi sparare per finta «dieci o venti milioni di volte al giorno» piuttosto che lasciar uccidere un solo ragazzino nel mondo reale.

L’importante è vendere
Anche il racconto che dà il titolo alla raccolta, «Venerdì Nero», ha una matrice autobiografica e deriva dalle scene di violenza e isteria collettiva a cui l’autore ha assistito durante il Black Friday, il giorno dello shopping compulsivo, mentre lavorava come commesso in un negozio di abbigliamento. Le orde che nel racconto si riversano nel negozio calpestandosi e uccidendosi a vicenda sono affette da un morbo che divora il cervello e impedisce di esprimersi con frasi compiute, anche se il narratore/commesso afferma con orgoglio di saper «parlare il Black Friday» riuscendo sempre a indovinare il modello e la taglia giusti per accontentare i clienti.
La narrativa, per Adjei-Brenyah, non è solo strumento di resistenza o provocazione, ma anche prodotto destinato all’intrattenimento. In fondo, sembrano suggerirci questi racconti, lo scrittore è pur sempre un abile venditore, capace di modellare la propria voce su quella del pubblico per offrirgli esattamente ciò che vuole: non solo perché sa comprendere e addirittura generare il bisogno che andrà a soddisfare, ma perché è consapevole di far parte dello stesso sistema che sta denunciando. Nonostante l’elevato numero di vittime generato dalle resse del Black Friday, il commesso di «Venerdì Nero» è deciso a stabilire il record annuale di vendite per aggiudicarsi in premio un costoso giubbotto di marca che altrimenti non potrebbe permettersi.

Quanto allo shock provocato dalle scene più splatter o disturbanti – come la bambina calpestata selvaggiamente dalla folla o i feti abortiti con cui dialoga il protagonista di «Lark Street» – dovrebbe servire a scuoterci dalla voce narcotizzante dell’uccello-drone che nell’ultimo racconto ripete ossessiva: «Siete al sicuro. Siete protetti. Continuate a darci il vostro contributo vivendo una vita felice». Tutti i racconti terminano con finali ambigui, bruschi, inverosimili; forse perché la realtà è più spiazzante di qualsiasi fiction, oppure perché, come riferisce il «Dio dalle Dodici Lingue» all’aspirante scrittore che lo ha evocato in «L’ospedale dove», «non c’è niente di più noioso di un lieto fine».