Nella raccolta Miti d’oggi, Roland Barthes indicò nel Tour de France «il miglior esempio che abbiamo mai incontrato di mito totale, perciò ambiguo». Il celebre intellettuale scrisse il noto saggio sulla Grande Boucle nel 1957, fortemente influenzato dalla recente epopea di giganti quali Gino Bartali, Fausto Coppi, Louison Bobet e Charly Gaul. Se avesse vergato analoghe note trent’anni prima, quando la Francia dominava la Coppa Davis, o avesse visto all’opera il 14 (!) volte vincitore Rafael Nadal, Barthes non avrebbe potuto fare a meno di analizzare la poliedrica simbologia incarnata dal Roland Garros, il campionato mondiale di tennis su terra rossa.

Fondato nel 1891, è difficile dire quale edizione si disputi a partire da domani. Questa incertezza fa appunto parte dell’ambiguità del mito, esemplarmente illustrata da una fotografia scattata nel settembre di 80 anni fa. Sullo sfondo del Centre Court, che appare gremito in ogni ordine di posto, vi sono ritratti una signora in uniforme militare e due tennisti. Le loro tre differenti traiettorie esistenziali sono perfettamente rappresentative dell’equivocità del torneo durante gli anni più controversi della storia francese, gli anni dell’occupazione nazista e del governo di Vichy. Quegli anni sono stati a lungo narrati attraverso gli opposti luoghi comuni della ferocia hitleriana e dell’intrepida resistenza dei maquisards, quando in realtà arditi equilibrismi morali produssero una combinazione indistinguibile di normalità ed emergenza, in cui si collocarono anche i campionati di tennis disputati fra il 1941 e il 1945, i cui risultati sono omessi negli albi d’oro ufficiali del Roland Garros.

Quei campionati si disputarono su preciso ordine della Commissione generale per l’educazione fisica e lo sport, immediatamente istituita dopo l’armistizio e posta sotto la direzione di Jean Borotra, l’ex campione che con Cochet, Lacoste e Brugnon aveva assicurato alla Francia ben sei insalatiere d’argento e in onore dei quali lo stadio del Roland Garros fu edificato nel 1928. Con l’obiettivo di ripristinare la grandeur nazionale dopo la resa militare e di promuovere una rigenerazione della razza in cui lo sport operasse come garante dell’ordine costituito, la Commissione organizzò un fitto calendario di attività atletiche, compreso un circuito tennistico in piena regola, nel quale diede eccellente prova di sé il già ultraquarantenne Henri Cochet, l’uomo in calzoni corti a sinistra nella foto. Nel 1943, Cochet raggiunse la finale dei campionati nazionali, arrendendosi «di fronte a un pubblico assai numeroso» al più giovane Yvon Petra, lo spilungone a destra nella foto.

Ricordato per esser stato l’ultimo transalpino a fregiarsi del titolo di Wimbledon nel 1946, per competere Petra era stato allo scopo liberato da un campo di prigionia tedesco. Si era rimesso così bene, che bissò il successo il 5 agosto 1944, in una giornata di caldo torrido che, secondo le parole del giornale L’Auto, aveva trasformato il campo di gioco in un autentico «forno crematorio», una descrizione che appare oggi tragicamente oscena mentre ben altri forni erano in funzione nei lager nazisti. Sul quotidiano Le Matin, la cronaca del match conviveva invece con un’istantanea di Hitler da poco scampato all’attentato del 20 luglio precedente e con il resoconto dei «vani attacchi anglo-americani» a Caen. In realtà, dopo lo sbarco in Normandia, gli Alleati stavano aprendosi la strada verso sud e il 26 agosto la liberazione fu festeggiata con una grande parata sui Campi Elisi, quando Simonne Mathieu, la donna al centro della foto, sfilò accanto al generale Charles de Gaulle.

Mathieu aveva tutti i galloni per comparire insieme ai due campioni maschi. Nata Passemard nel 1908 da una benestante famiglia parigina, era stata instradata al tennis come capitava di frequente per le rampolle del suo lignaggio: il tennis era considerato adatto alle donne perché richiedeva movimenti ampi, completi e decisi, senza però insidiare la grazia e l’eleganza cui ogni donna doveva improntare il proprio comportamento. Da adolescente, Mathieu scalò le classifiche nazionali, fino a porsi stabilmente alle spalle di Suzanne Lenglen, che peraltro non superò mai, né sul campo, né nel cuore dei francesi.

Già sposa di René Mathieu, divenne madre prima di diventare maggiorenne ma proseguì la carriera, affermando che l’unico svantaggio recatole dalla maternità era appena una «certa diminuzione di forza fisica». D’indole spavalda e anti-conformista, fondava il suo gioco su un misto di resistenza, coraggio e regolarità. Non si peritava di infrangere le regole non scritte del fair-play, come accadde a Montecarlo allorché abbandonò la partita per protesta contro una decisione arbitrale e a Wimbledon quando lanciò la racchetta a seguito di un ennesimo nastro sfortunato. A partire dal 1929, raggiunse l’atto conclusivo del Roland Garros per ben sei volte, uscendo sempre sconfitta e senza conquistare il favore degli appassionati, che dalla tribuna sospiravano rimpiangendo la «divina» Lenglen. Finalmente, Mathieu si aggiudicò il major parigino nel 1938, mentre l’anno dopo realizzò un formidabile en-plein trionfando in singolo, doppio e misto.

Ormai la guerra era alle porte e lo scoppio del conflitto trasformò lo stadio del tennis in un luogo di detenzione. Durante la drôle de guerre, il periodo di stallo bellico dopo l’invasione della Polonia da parte della Wehrmacht, il governo di Parigi internò nell’impianto del Roland Garros centinaia di ebrei e di stranieri di simpatie antifasciste o filo-sovietiche, che erano divenuti potenziali nemici a seguito della firma del patto Molotov-Ribbentrop. Lo scrittore ungherese di origine ebraica Arthur Koestler lo riportò nel suo La schiuma della terra: «Pochi di noi sapevano qualcosa di tennis, ma quando ci permettevano di uscire all’aperto, vedevamo i nomi di Borotra e Brugnon sul tabellone».

La guerra sorprese Mathieu a Forest Hills, in procinto di giocare lo slam di New York. Decise di tornare in patria, dove restò fino al marzo 1940, quando riparò a Londra. Lì fu raggiunta dalla notizia dell’aggressione nazista: Mathieu raccolse l’appello di de Gaulle alla Francia libera e subito offrì i suoi servigi. Le fu affidato l’incarico di costituire il «Corpo delle volontarie francesi» (CVF), che furono destinate a compiti ausiliari, per consentire l’invio al fronte degli uomini assegnati a missioni subordinate. Forse a causa del suo carattere schietto e spigoloso, perse il comando del CVF alla fine del 1941, per riapparire solo nel 1944 ad Algeri, nei ranghi dei servizi segreti.

Dopo la guerra, Mathieu fu insignita della Legion d’onore. Tornò poi alla sua passione e dal 1949 fino al 1960, guidò la nazionale femminile di tennis. Morì nel 1980, senza aver potuto godere della completa ammirazione del suo paese. La Federazione francese di tennis le ha infine intestato uno dei campi del Roland Garros e persino il trofeo del doppio femminile, ma sulla targhetta della coppa – ultima mancanza di rispetto – il suo nome è scritto con una sola «n».