Nella Vita di Simone Weil di Simone Pétrement, edita da Adelphi, si legge che uno dei desideri insopprimibili della giovane allieva di Alain era quello di sperimentare la condizione dell’operaio agricolo, dopo le esperienze intraprese in fabbrica tra il 1934 e il 1935. Venne allora messa in contatto con Joseph-Marie Perrin, un prete domenicano che incontrò a Marsiglia nel giugno 1941 e che diventò il suo padre spirituale. Iniziò così un breve ma tormentato rapporto, imperniato perlopiù sugli argomenti riguardanti la fede cristiana e culminato nella pubblicazione di Attente de Dieu, lo splendido libro apparso postumo nel 1950, a cura dello stesso Perrin, che raccoglie le lettere e gli scritti dai quali traspare l’attrazione per la dottrina cattolica e, al contempo, la repulsione per alcuni aspetti storici che contrassegnarono l’operato della Chiesa. Perrin mise in contatto la Weil con Gustave Thibon, soprannominato le philosophe-paysan, che, sorvolando sugli impedimenti di ordine manuale, le diede l’opportunità di lavorare nella sua tenuta agricola e allestì, attingendo ai cahiers lasciatigli in dotazione dall’amica, il libro postumo La pesanteur et la grâce, uscito da Plon nel 1947.
Queste testimonianze sono ora leggibili in Simone Weil come l’abbiamo conosciuta (pp. 174, € 18,00) che Mimesis manda in libreria nella valida versione (non dichiarata) di Giuseppe Giaccio, apparsa per i tipi dell’Àncora nel 2000. Perrin e Thibon licenziarono il testo nel 1952 presso La colombe, meno di un decennio dopo la scomparsa dell’autrice che, divorata da tisi e inedia, si spense come un fuoco fatuo in un ospedale londinese nel 1943. Si tratta di due contributi autonomi, molto diversi sul piano metodologico, nonostante in entrambi sia avvertibile la rinuncia a qualsiasi tentazione apologetica in virtù del recupero di quella contrapposizione dialettica che aveva caratterizzato il rapporto interpersonale con la filosofa.
Sia Perrin sia Thibon si rifanno al loro retaggio confessionale, evidenziando i punti nevralgici che portarono Simone Weil «sulla soglia della Chiesa», senza mai optare per la scelta cruciale del battesimo, abbracciato forse solo in punto di morte, nonostante assistesse regolarmente alle cerimonie religiose (indimenticabili i passaggi delle lettere indirizzate al padre domenicano in cui evoca le vertigini provate di fronte alle funzioni ad Assisi e Solesmes) e recitasse quotidianamente in greco il Padre Nostro (si legga al riguardo A proposito del Pater). Mentre l’intervento di Perrin si articola in maniera piuttosto ortodossa, rimproverando all’amica un atteggiamento manicheo, poco incline alla compromissione con regole e dogmatismi di ordine ecclesiastico, Thibon si concentra maggiormente sul versante speculativo, facendo ricorso a pensatori d’eccezione come Pascal, Spinoza, Nietzsche e definendo la Weil, sulla falsariga di un Rimbaud manipolato da Claudel, un «mistico allo stato selvaggio».
L’afflato religioso con il quale l’autrice visse gli ultimi anni derivava dall’interesse nutrito per il cristianesimo delle origini, contaminato con La source greque (altro titolo apparso postumo nel 1953 nella collana gallimardiana «Espoir» diretta da Camus) e lo gnosticismo, nonché con lo spirito del XII secolo, in cui fiorirono stile romanico, trovatori e catari. Lo stesso Perrin, pur ammettendo che i testi della Weil fossero ricavati da appunti non destinati alla pubblicazione, afferma che la conoscenza dei catari non risultasse così approfondita e che le speculazioni in ambito dottrinale mancassero di valide argomentazioni teologiche, una sorta di hybris derivante più da un temperamento eccentrico che da un solido retroterra conoscitivo. Nel «cuore stesso della privazione», come asserisce Thibon, l’opera della Weil si configura come un’immedicabile ferita (vedi i riferimenti al malheur), laddove la nozione di «fede implicita», presente nell’Autobiografia spirituale di Attente de Dieu, non collima, secondo Perrin, con quella di cui parlano i teologi.
Ma, al di là delle interpretazioni dialettiche e degli indubbi meriti dei due studiosi senza i quali non conosceremmo alcuni esiti raggiunti dall’opera weiliana tramite l’essenzialità di una parola che sembra cristallizzarsi sulla pagina alla stregua di un fregio in una cattedrale romanica, l’atteggiamento di Perrin e Thibon non sempre risulta condivisibile. Il loro dogmatismo costringe entro schemi ereticali un pensiero che non voleva manifestarsi entro l’alveo di formule troppo circostanziate come quelle dottrinali, se non altro per il suo «carattere di incompiutezza» (Del Noce). Il sincretismo della Weil (non si dimentichi che aveva studiato il sanscrito insieme a Daumal) si abbevera alla fonte della «verità» e della spoliazione di sé, modellandosi su un ascetismo che si richiama alla concezione francescana di carità nei mistici medievali.