Portare in scena Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi non è semplice e l’allestimento in programmazione al Teatro alla Scala in questi giorni ne è la prova. Certamente incide il fatto che la struttura di quest’opera, alla quale il compositore diceva di voler bene «come si vuol bene al figlio gobbo», è il prodotto di due cantieri aperti a distanza di molti anni: il primo nel 1857 su libretto di Francesco Maria Piave per il Teatro La Fenice di Venezia, dove l’opera fece fiasco; il secondo nel 1881 con il libretto rivisto da Arrigo Boito al Teatro alla Scala di Milano, dove invece trionfò. Nel ventennio intercorso tra le due versioni il teatro musicale è cambiato irreversibilmente.

MENTRE WAGNER teorizzava e praticava l’«opera come dramma» intesa come continuum scenico non più diviso in numeri chiusi, Verdi, che aveva portato la struttura a numeri alla sua massima compiutezza, raggiungeva traguardi simili esplorando il genere del grand opéra con Don Carlos e Aida. La versione definitiva di Simon Boccanegra è una sorta di palinsesto dove la vecchia e la nuova maniera verdiana si sovrappongono, tentando una sintesi tra le forme chiuse del melodramma italiano e quelle aperte del melodramma tedesco. Portare in scena quest’opera richiede ai direttori d’orchestra la capacità di valorizzare i pezzi di bravura e allo stesso tempo di dare rilievo alle innovazioni ritmiche e armoniche.Luca Salsi nel ruolo del protagonista dà fondo alle sue grandi capacità vocali

IL GIOVANE Lorenzo Viotti, che non aveva convinto del tutto al suo esordio scaligero con Roméo et Juliette di Gounod, trova per Simon Boccanegra un equilibrio tra l’esaltazione delle preziosità timbriche della partitura e il rispetto delle dinamiche di una drammaturgia allo stesso tempo lacunosa e serrata, dando il giusto rilievo sia ai momenti estatici, sia a quelli eroici, sia a quelli di rievocazione storica: qualche dettaglio nei pezzi d’insieme vacilla, ma la sonorità complessiva è voluminosa, infuocata, accattivante. Certo il cast che dirige gli semplifica il lavoro: Luca Salsi nel ruolo del protagonista dà fondo ancora una volta alla sua capacità di esprimere ogni intenzione o emozione con un fraseggio sempre vario e una tecnica solidissima; Ain Anger scolpisce un Fiesco statuario nella prima aria («Il lacerato spirito») e appannato per il resto dell’opera, con un timbro brunito ma pronuncia e fiati spesso fuori fuoco; Charles Castronovo prova a costruire il personaggio romantico di Adorno attorno alla sua voce da tenore drammatico, risolvendo il ruolo bene in acuto, anche se il resto della tessitura è opaco e a tratti sforzato; Roberto De Candia ci restituisce un Paolo sinistro e insolitamente sonoro; Eleonora Buratto tratteggia un’Amelia tenera e allo stesso tempo volitiva con una vocalità corposa, forse un po’ troppo spinta negli acuti per timore che si disperdano nel vuoto della scenografia predisposta da Angelo Linzalata e Daniele Abbado, che dello spettacolo è anche regista.

GIUSTAPPUNTO visto il vuoto che persegue, la scenografia sembra voler esorcizzare l’orrore del vuoto provato da certuni con uno sgomentante vuoto che a volte finisce per fare orrore: la struttura, alla quale Abbado ci ha abituato con altrui allestimenti molto simili, è modulare, scarna e grigia, animata a varie riprese da complementi scenici (una nave, un albero, una cameretta ecc.) che dicono poco o nulla. A questo si aggiunga uno scarsissimo lavoro sugli attori, che finiscono per muoversi un po’ a caso sul palco. Certo, come dicevamo, i vuoti del libretto sono difficili da colmare, ma aggiungerne degli altri sembra un po’ volersi fare del male e fare del male al pubblico. Repliche fino al 24 febbraio.