Di Simon Boccanegra, stasera ultima replica alla Scala, Giuseppe Verdi diceva: «Gli ho voluto bene come si vuol bene al figlio gobbo». Si tratta di un’opera bifronte, perciò di esecuzione difficile e scivolosa, frutto di due sfide compositive: la prima nel 1857 a Venezia, la seconda nel 1881 a Milano. Cambiamenti radicali sono intervenuti nella poetica verdiana nel tempo trascorso fra le due versioni, cosicché l’attuale Boccanegra si presenta come un palinsesto dove il vecchio e il nuovo si sovrappongono, tentando, come già in Macbeth, una sintesi avventurosa e a tratti impossibile tra l’articolazione tradizionale in forme chiuse (arie duetti, cori ecc.) del melodramma romantico e l’ideale della continuità del discorso drammaturgico-musicale propugnato da Wagner e già esplorato da Verdi nei suoi cimenti col genere del grand-opéra (Don Carlos e Aida). Ai direttori d’orchestra si chiede perciò una duplice abilità: saper impugnare e dominare i ritmi talvolta ancora marziali e i pezzi di bravura del Verdi all’apice della carriera e allo stesso tempo valorizzare le ricercatezze timbrico-armoniche e lo studio delle tinte del Verdi maturo.

La sfida esecutiva è piena di insidie. Il direttore Myung-Whun Chung, che ha già vinto nel 2014 il premio Abbiati della Critica Musicale Italiana come miglior direttore d’orchestra per il suo Boccanegra alla Fenice di Venezia, si disimpegna egregiamente da grande sinfonista qual è, addomesticando e facendo dialogare armoniosamente le due anime dell’opera. Il cesello dei colori, delle dinamiche e dei tempi è superbo, attentissimo alle prelibatezze cromatiche che preludono all’aria di Amelia e alle contemplazioni senili del mare di Simone, bisognose di tempo e fraseggio indugianti, ma anche agli slanci eroici di Adorno; potente ma mai fuori controllo risulta l’energia impegnata nel dare corpo alla grandeur della rievocazione storica voluta da Verdi nel Prologo (colpisce la solennità straziante dell’aria di Fiesco), nelle scene del consiglio, della congiura, del dialogo tra gli ormai vecchi Fiesco e Simone, della morte di quest’ultimo.

L’incontro del vecchio Leo Nucci (Simone) con il giovane Dmitry Beloselskiy (il vecchio Fiesco) è istruttivo: da un lato una voce ormai poverissima di armonici e spesso calante, che sorregge il dramma con tecnica solida, dall’altro una voce fragorosa ma dal fraseggio ancora acerbo. A fuoco in acuto Carmen Giannattasio (Amelia), ma stentata nel registro medio-grave, su cui pure Verdi insiste in partitura. Bravo Giorgio Berrugi (Adorno), bravissimo Massimo Cavalletti (Paolo).

L’allestimento, del 2010, ora come allora delude. Le scene di Pier Paolo Bisleri sono decorose, nel senso che decorano la vicenda senza grandi idee. Della regia di Federico Tiezzi è presto detto: non c’è, abbandonando solisti e coro a movimenti stereotipi e spesso fuori luogo.