Abituati come siamo a considerare le categorie del pensiero economico come questioni tecniche, di cui si occupano solo gli economisti di professione, diamo poi per scontato cosa si intenda quando si parla di lavoro, valore, denaro. A smentire l’ovvietà di questi concetti contribuisce un breve testo titolato Filosofia del lavoro (a cura di Francesco Valagussa, Mimesis, pp. 129, € 9,00) di Georg Simmel, una di quelle figure del pensiero che, dopo avere lasciato un segno importante nella sua epoca, alla fine della contingenza in cui sono vissute rischiano di venire relegate agli studi specialistici. Eppure, non solo un’intera generazione di filosofi si è formata sui suoi testi – da Lukács a Benjamin, passando per Adorno – ma la sua prosa fluida e immaginifica gli garantì all’epoca un successo di grande pubblico. Oggi, a dispetto dei mutamenti intervenuti nel contesto e nei nostri riferimenti culturali, lo stile di Simmel non ha perso nulla della sua brillantezza.

Il dibattito filosofico e politico a cavallo del secolo fu sia vivace che infervorato, e l’ampia introduzione di Valagussa tende forse a darlo troppo per scontato, preferendo approfondire il pensiero di Simmel nel lungo periodo della grande filosofia tedesca, da Fichte fino a Heidegger. Vero e proprio saggio filosofico, il suo ragionamento sviluppa e radicalizza la questione fondamentale posta da Simmel: il nesso valore-lavoro, costitutivo per l’analisi marxiana, e banalizzato dalla vulgata socialista di Ferdinand Lassalle.

Simmel scrive negli anni in cui il paradigma dell’economia classica, per la quale il lavoro è la fonte del valore, viene sottoposto – forse proprio per disarmare la critica marxiana – a una violenta contestazione da parte delle nuove correnti marginaliste. È in questo contesto che, nel maggio 1899, esce il saggio di Simmel, per poi confluire, con profonde revisioni, nella Philosophie des Geldes, pubblicata l’anno successivo. Dall’idea di per cui il lavoro era «fonte di ogni ricchezza», il socialismo volgare ricavava la convinzione che esso dovesse sostituire il denaro come misura concreta e universale del valore delle cose, diventando «moneta-lavoro». E proprio qui Simmel vede il problema: seguendo Marx, egli individua una contraddizione nell’assumere il lavoro astratto come fosse concreto. Com’è infatti possibile acquisire qualcosa di specifico e particolare come il lavoro a misura omogenea del valore di tutte le cose? Il lavoro può diventare misura quantitativa del valore solo in quanto correlato della merce, dunque in astratto; d’altronde, il lavoro concreto può esser valutato solo qualitativamente, sulla base «dell’utilità del suo risultato».

Il lavoro «in generale» non esiste: o meglio, non è altro che il correlato del dominio della merce e del denaro sul lavoro vivo. Partendo da qui, Simmel fa però un passo ulteriore rispetto a Marx, e sposa integralmente l’impostazione marginalista: il problema non è quindi più, come per Marx, la scissione tra lavoro astratto e lavoro vivo, bensì la fonte psicologica del valore. Per Simmel ciò che dà valore alle cose è un «processo interiore assolutamente indefinibile», che le investe del nostro interesse. A differenza di Marx, per il quale il mondo del denaro rappresenta l’apparenza di un sistema di relazioni sociali oggettive, per Simmel il mondo reificato è divenuto l’unica realtà: non esiste più alcuna oggettività sociale dietro il fantasma della merce. «L’intero valore degli oggetti» risiede ora solo «nei sentimenti che essi destano».

Certo, il mondo dei valori resta una duplicazione che «si erge sopra il mondo dell’essere»; ma per Simmel è diventato «difficile dire che cosa sia l’essere», dal momento che questa astrazione si è fatta totalizzante. Più che una critica dell’economia politica, quella di Simmel è quindi una fenomenologia dell’esperienza vissuta nel mondo reificato. Riandando a Kant, Valagussa chiama efficacemente questa condizione uno «schematismo lacerato», nel quale viene a mancare ogni termine medio tra rappresentazione e oggetto, tra valore ed essere. E proprio in questa lacerazione – nella quale oggi siamo più che mai irretiti – sta tutta l’attualità del ragionamento di Simmel, che resta tra i più acuti sintomatologi della nostra società delle merci.