In un cortometraggio del 1922 – Cops – Buster Keaton si ritrova improvvisamente inseguito da una marea di poliziotti, che lo scambiano per il colpevole di un’esplosione durante una parata. Il fuggiasco riesce infine, travestendosi, a chiuderli tutti in un edificio e così a beffarli. Eppure, di lì a poco, Buster riaprirà la porta e si riconsegnerà spontaneamente agli agenti inferociti, con un gesto masochistico e sconsolato. È un gesto dettato dallo sconforto: la ragazza che desidera e che vuole sposare, sin dall’inizio del film, lo ha rifiutato di nuovo. Nell’ultimo fotogramma si vede l’inseparabile cappello di Keaton posato su una tomba solitaria, su cui è incisa la parola ‘fine’. «I film di Keaton – ha scritto Charles Simic in un bellissimo saggio sull’attore americano – nonostante le risate hanno un fondo malinconico. (…) Un film di Keaton, continua Simic, «dice di più sulla dura condizione dell’essere umano ordinario di quanto sappia fare la tragedia. Se cercate la vera serietà e sospettate che non sia separabile dal riso, allora Buster Keaton dovrebbe essere il vostro filosofo preferito». Il suggerimento potrebbe valere, tutto sommato, anche per il lettore di poesia che non voglia separare – secondo un’idea antichissima, già del Simposio platonico – il tragico e il comico: quel lettore troverebbe proprio in Simic uno splendido alleato. Un po’ come il Keaton che oscilla su una scala pericolante o che sguscia fra le gambe maldestre di un inseguitore, anche Simic vive in una sorta di costante precarietà, funambolo in equilibrio fra tragedia e ironia, o fra storia e metafisica.
Lo stesso statuto incerto, la stessa divertita ambivalenza li si ritrova anche nell’ultima raccolta di Simic, Come closer and listen, pubblicata nel 2019 da HarperCollins, e da poco approdata in italia: Avvicinati e ascolta, nella versione di Damiano Abeni e Moira Egan (Tlon, pp. 181, € 16,00). Si potrebbe eleggere a emblema di chi dice ‘io’ in questi versi una lirica come Skywalking (Camminare nel cielo), che mescola appunto malinconia, tratto fumettistico e sguardo trasognato: «Molto lutto ci attende, amici miei. / Da questo giorno in poi / metteremo alla prova la nostra sorte / come l’uomo che tende un filo / tra due grattacieli, / e che ci si incammina sopra / con in mano un ombrello aperto / che il vento gli potrebbe strappare / quando è a metà del tragitto, / per poi divertirsi / a sbatterlo su muri e finestre. / Probabile che ci dimentichiamo dell’uomo / che lassù agita le braccia / come uno spaventapasseri nella tempesta». Nel primo verso di questa poesia compaiono il lutto e gli amici cui è indirizzata. Sono due direttrici preziose per chi si avventuri fra queste pagine: entrambe portano, in fondo, in direzione del passato. Alle Giubbe Rosse, Firenze, è dedicata per esempio a un faro della poesia americana, un compagno di strada come Charles Wright (ed è, a sua volta, una risposta a una poesia di Wright scritta negli anni novanta, Con Simic e Marinetti alle Giubbe Rosse). Un’altra, Uccelli al crepuscolo, ha come destinatario un monumento della poesia mondiale – scomparso proprio in queste settimane – il polacco Adam Zagajewski.
Come Zagajewski, Simic affonda le proprie radici in quell’Europa dell’Est che ha dato moltissimo alla lirica novecentesca. Nato a Belgrado nel 1938, Simic si trasferisce negli States quando è già adolescente, nel ’54, e trascorre la sua giovinezza a Chicago e poi a New York. I luoghi primi della propria vita – e della propria cultura – restano tuttavia insostituibili per la sua parabola di scrittura. Non è un caso che Simic sia anche il traduttore di uno dei maggiori poeti slavi del Novecento, Vasko Popa. Le pagine critiche che gli ha dedicato sono, almeno in parte, anche un autoritratto, laddove individuano nelle sue origini miste – Popa è nato a nord di Belgrado, nel Banato, all’incrocio fra diverse etnie – nonché in un’intelligenza sempre ironica il segreto dei suoi versi. Colpisce in effetti, in Simic, come rivoli molto diversi coesistano, dando forma a una poesia dall’identità varia ma inconfondibile, che riesce a essere intimamente americana – pur mostrandosi da sempre diffidente nei confronti dell’American dream – e a lasciar trapelare, insieme, un aroma di vecchia Europa.
Lo si nota, per esempio, dando un’occhiata al suo originalissimo pantheon: insieme a Popa, o a un europeo più «centrale» come Baudelaire, ecco un artista statunitense come Joseph Cornell, legatissimo alle strade e ai robivecchi di New York, cui Simic ha consacrato, nel 1992, uno splendido libricino come Dime-Store Alchemy (tradotto in italiano, da Adelphi, con il titolo di Il cacciatore di immagini). E in questa nuova raccolta di versi, intanto, un titolo come Bolle di sapone non può non far pensare alle scatole magiche di Cornell e alle sue Soap Bubbles. E Cornell vuol dire anche, per Simic, non dimenticare il Surrealismo, magari liberandolo di certi eccessi intellettualistici, liberando la magia frugale degli oggetti. Basterebbe leggere una poesia come I dadi: «Guardali alle prese con il fato / mentre rotolano e ballonzolano / gettando al vento ogni cautela / (…) pesti e lividi come due piccole dita del piede / che sbucano da una vecchia scarpa da ginnastica». Del resto gli oggetti per Simic sono una sorta di absolute otherness, di alterità assoluta, come si legge nel suo notebook, Il mostro ama il suo labirinto (anche questo tradotto da Adelphi). E si può aggiungere che nell’edizione americana di Avvicinati e ascolta in copertina troneggia una sedia vintage (vengono in mente i versi di Invention of nothing, una poesia degli anni settanta, in cui mentre scrive il poeta non si accorge che non rimane più niente del mondo, «except my table and chair»).
La poesia di Simic continua a configurarsi come una piccola filosofia portatile, o una metafisica da taschino, apparentemente senza pretese. Se, per esempio, si vaga in cerca di Dio, si è destinati allo scacco, come in O immenso cielo stellato, uno spazio nel quale «vagano i nostri pensieri, / come venditori ambulanti di Bibbie / solo per trovarsi con le porte / sbattute in faccia». Forse l’unica vera, consistente divinità, nella poesia di Simic, è una divinità più spesso malvagia, la Storia. E Simic è un poeta abituatosi a scrivere among the ruins, fra le rovine, come recita un altro titolo di questa raccolta. In Nascondino il Vecchio cerca di ripescare con difficoltà i volti dei propri amici e amori nell’abisso del tempo, ma altrove a riemergere con più chiarezza, invece, è uno stralunato quanto inquietante ricordo di guerra: «C’è anche una mucca / i cui occhi i soldati / hanno cavato con un pugnale / per poi accenderle paglia sotto la coda / in modo che corresse cieca / su un campo minato / e da lì in poi nella mia testa / di tanto in tanto».
Questo grande poeta è anche un «testimone (…) di tanti crimini», e in certo senso è da sempre un uomo postumo («Sono nato – non so a che ora – / mi hanno dato una pacca sul sedere / e mi hanno passato in lacrime /a uno morto da parecchi anni, in una nazione / che non è più sulle carte geografiche»). Forse il senso della sua poesia, capace di resistere alla violenza della Storia, è contenuto in una canzone popolare slava, in cui una ragazza lancia una mela sempre più in alto, finché la tira più in alto delle nuvole, e poi supplica le nuvole stesse di restituirgliela. Di questo racconto, ha annotato da qualche parte Simic, «a me piace la prima parte, quando siamo ancora nel regno dell’impossibile». Anche i suoi versi abitano quel regno, una scatola cinese che contiene un universo, ma nel quale la bellezza resta nascosta volentieri nelle «cose fuggevoli», le più semplici, sopravvissute e solitarie: «come il profumo della sera d’estate / all’incrocio di Christopher e Bleecker / vuoto e silenzioso».