In uno dei saggi selezionati, con altre prose poetiche, per un volume del 2015, Charles Simic ricorda sua madre: «L’ultima volta che parlai con lei il giorno prima che morisse all’età di ottantanove anni, nell’inverno del 1994, mia madre mi domandò: ‘Stanno ancora ammazzandosi a vicenda, quegli idioti?’». La «sporca miserevole guerra» in corso allora in Jugoslavia non poteva che riaprire la vecchia ferita, quella che nove anni dopo, e rocambolescamente («Le mie agenzie di viaggio furono Hitler e Stalin»), portò la famiglia Simic da Belgrado negli Stati Uniti. Nel 1954, il futuro poeta aveva sedici anni e solo una spolverata di inglese, rubata, con la musica jazz, da una radio italiana, captata in segretezza, nelle pause dei bombardamenti durante la guerra. Il senso della vita acquisito da Simic, la venatura assurda e bislaccamente fantasmagorica del suo sguardo sul mondo va rintracciata in buona parte nella perdita dell’innocenza subita nell’infanzia. «Leggiadro è il mondo che si sveglia presto al male», egli cita da Yehuda Amichai.
Di quella sua prima guerra Simic non perderà la memoria. Frammenti visivi di cani scalciati in aria da stivali tedeschi, improvvise macerie dove un attimo prima c’era una casa, gente impiccata ai pali del telefono … riaffiorano negli anni e nella scrittura fuori e dentro il loro contesto d’origine vissuto da una coscienza stupita. Sono immagini mai sedate, anzi acuite, con lo studio dell’esercizio retorico, dal ripetersi coattivo dell’‘idiozia’ umana. «La filosofia è come un tornare a casa. Faccio un sogno ricorrente sulla via dove sono nato. È sempre notte». Unico riscatto si potrà affidare alla reificazione dell’assurdità del male alla luce dell’alchimia salvifica dell’arte. In tal senso l’America aiuterà.
L’ultimo ricordo della madre
Queste premesse sono necessarie alla lettura tanto della poesia di Simic, maturata con il consorzio di più esperienze culturali, quanto della sua prosa altrettanto eccentrica, della quale in Italia sono già uscite alcune raccolte. La vita delle immagini, che registra l’ultimo ‘ombelicale’ ricordo della madre (e della patria), assieme a notazioni su temi disparati (Heidegger, il blues, fotografia, cibo, poesia, politica, cinema muto, personaggi), appare adesso nella «Biblioteca» Adelphi (traduzione di Adriana Bottini, pp. 339, € 22,00), con ammiccamento affermativo sulla vita che rimane agli «orfani», come accade in Simic, quando egli fa correre la freccia della mente sopra il basso continuo del substrato di una costernazione ‘amniotica’ che si destina a farsi commedia paradossale o anatomia malinconica. In questo, solo in questo, egli si differenzia da poeti che, su altri presupposti, condividono la medesima scrittura di humor metafisico, come Mark Strand e James Tate, dei quali Simic è stato amico.
Ma la prosa di Simic è molto più apoftegmatica, ogni pagina ci consegna uno e due aforismi flemmatici: «La poesia è un prodotto del caso non meno che dell’intenzione. Forse soprattutto del caso», egli scrive, con involontario antagonismo, in un pezzo di rassegna dei classici della poesia americana che, per emersoniana e whitmaniana elezione, sulla verità del proprio Verbo, almeno fino a metà Novecento, al Caso non deve nulla. Oppure: «la poesia autentica è sempre antipoetica». O ancora: «Il poeta del ventesimo secolo è ‘un metafisico nel buio’, secondo Wallace Stevens. A me questa frase sembra quasi una variante della vecchia storia sul dare la caccia a un gatto nero in una stanza buia». E quando questa mente mascheratamente azzerante cerca profondità più rifinite sconfina nel ragionamento filosofico minimalista: «I piaceri della filosofia sono i piaceri della riduzione – epifanie nel processo di accennare in poche parole a questioni complesse. La poesia e la filosofia si occupano entrambe, per esempio, dell’Essere. Che cosa è la poesia lirica se non, per così dire, la ricreazione dell’esperienza dell’Essere? In entrambi i casi c’è quel bisogno di ridurre ai termini essenziali, di dire l’indicibile e di lasciare trasparire nel suo splendore la verità dell’Essere. La storia, al contrario, è antiriduzionista». Un concetto che, scartando la Storia, riproporrà anni più tardi a proposito dei Quarantanove gradini di Roberto Calasso: «Per Mallarmé o per Calasso, come per Heidegger, pensare l’Essere è l’unica chiave per accedere alla poesia. Pur in modi differenti, tutti e tre hanno una forte tensione verso l’assoluto e sono pronti a rischiare il tutto e per tutto. Per loro, la sfida tra essere e nulla è la sfida suprema, l’unica che valga la pena di tentare». Una sfida che forse lo riguarda. Agli stessi fini di un’indiretta definizione della propria poetica non è da trascurare una riflessione sul Surrealismo da cadavre exquis, al quale Simic si è sentito all’inizio affiliato: «I surrealisti hanno intuito che la creazione del mondo non è ancora terminata. Il Caos di cui parlano gli antichi miti della creazione non ha ancora detto l’ultima parola. Il Caso continua a essere una delle manifestazioni del mistero del cosmo», a meno che, come sceglierà di fare Simic, che riconosce l’imperiosa forza del Caos, non ci si sottometta al Caso «solo per ingannarlo».
Fra dogmatismo e problematicità
Un pensiero ondivago, fra dogmatismo, ricerca (anche identitaria) e problematicità, energizza la prosa menippea della Vita delle immagini. Se da un lato Simic si lascia prendere dallo spirito dell’Anatomia della melanconia di Robert Burton (e Simic è un malinconico forzato, un Buster Keaton della poesia), dall’altro guarda volentieri agli assemblage di Joseph Cornell, con una convergenza – forse casuale – su un dato che sfiora il personale e illuminanti intuizioni: «Come Edgar Allan Poe e come Emily Dickinson, Cornell era un amante dei segreti e dei misteri. Lui stesso disse che le sue scatole erano come giochi dimenticati, i giochi abbandonati di un’infanzia ricca di ambiguità», erano «poesie rigorosamente ermetiche». Come ermetica, su un altro versante della rappresentazione del mondo che piace a Simic, è la filosofia dell’imperturbabile Buster Keaton, il quale, «naufrago alla deriva sull’oceano sconfinato, trova un tabellone galleggiante, in realtà un bersaglio per le esercitazioni delle nave da guerra, vi sale sopra, tira fuori la sua canna da pesca e si mette come niente fosse a pescare. Ecco, così è la grande poesia: una superiore serenità di fronte al caos. E la saggezza di farsi passare per stupidi». Il Buster Keaton di quel film (forse Il navigatore), come il Cornell collezionista e architetto dell’effimero del profondo, sembra assumere un’aura più misterica. In attesa di risanare un mondo «totalmente illogico» strappando «una risata al destino», Keaton si presta apostolicamente a farsi pescatore di saggezza contro il caos. Una chiosa al detto di Robert Frost sulla poesia da intendere semplicemente come «a momentary stay against confusion»: un puntello, fuggevole ma epifanico, contro la confusione delle macerie del mondo.