Tra le moltitudini di personaggi immaginati da Georges Simenon, soprattutto negli anni trenta e quaranta, sono in tanti ad aver architettato una fragile impalcatura di rispettabilità che sorregga il peso delle proprie disillusioni, nel tentativo di reprimere un inconfessabile desiderio di evasione. Elemento narrativo che favorisce una occasionale vena crudele dello scrittore di Liegi – Simenon si diverte spesso a farlo emergere per gradi, circoscrivendo dettagli diabolicamente insignificanti –, questo rimosso genera un potente senso di attesa, di preghiera che qualcosa accada a strappare il foglio del proprio insoddisfacente destino.
La memoria di questi personaggi, il più delle volte piccolo-borghesi dislocati in qualche provincia dell’Europa protestante, è di solito soffocata da una opacizzante routine della quale bastano alcune istantanee – attraverso quella precisissima scrittura «fotografica» della quale parlava anche Leonardo Sciascia a proposito di Simenon – per captare i sommovimenti minimi che porteranno i protagonisti a rivolgimenti dalle pieghe talvolta drammatiche e irreversibili.
Anche Il dottor Bergelon (ora nella nuova traduzione di Laura Frausin Guarino, Adelphi «Biblioteca», pp. 195, € 18,00), scritto nel 1939 e pubblicato per la prima volta nel 1941 (già edito in Italia da Mondadori nel ’64, nella collana della «Medusa»), segue questo canovaccio, e arricchisce la galleria di vividi e spesso inquietanti ritratti «ravvicinati» che Simenon collezionò in quegli anni, da Il pensionante (1934) al gelido L’assassino (’35), in cui agisce da protagonista un altro medico di provincia, il dottor Kuperus, il quale ammazza la moglie e l’amante di lei per poi proseguire nelle faccende abituali come se nulla fosse, fino ai commercianti Kees Popinga dell’Uomo che guardava passare i treni (’38) e Norbert Monde della Fuga del signor Monde (’44). Quest’ultimo è forse il personaggio più vicino – nell’atteggiamento straniato e sorpreso di fronte alla propria improvvisa «ribellione» – a Élie Bergelon, che conduce una modesta vita da medico condotto in una cittadina sulle rive della Loira.
Marito esemplare e esemplarmente annoiato dalla vita coniugale, padre di due figli che baciano i genitori con gesti meccanici e distratti («come una beccata», suggerisce con perfidia il narratore), Bergelon riceve a casa i suoi pazienti, incluse le prostitute locali, che svolgono presso di lui i controlli di salute prescritti dalla legge (dettaglio che serve a Simenon per insinuare l’elemento sordido nel quadretto famigliare). Se ai personaggi sopra citati bastava anche un episodio fugace per innescare una reazione psicologica imprevedibile, a provocare l’«epifania» del dottor Bergelon è un evento tutt’altro che marginale: un altro medico, il ricco e spregiudicato Mandalin, ha aperto da poco una clinica privata in città e gli propone di mettersi in affari con lui, promettendo un guadagno per ogni partoriente che il medico condotto «procurerà» alla clinica. Bergelon accetta senza nemmeno rifletterci, si direbbe più che altro per risparmiarsi la fatica di dire no. Una delle partorienti, però – trascurata durante una notte in cui Mandalin ha organizzato un ricevimento a casa sua a base di alcol e infinite partite di Bridge – muore assieme al bambino.
La colpa non è esattamente di Bergelon: la paziente era stata mandata da lui in clinica, certo, quando invece avrebbe potuto far nascere la bambina nel suo studio o affidarla alle cure di un ambulatorio fidato, ma al momento dell’incidente la donna era ormai in cura presso il potente collega. Eppure il vedovo, il giovane Cosson, rivolge a Bergelon le proprie furenti accuse, che sfociano rapidamente in vere e proprie minacce di morte.
Nessuno in paese prende sul serio le parole dell’uomo disperato, nemmeno Bergelon. Eppure questi è colpito da una sensazione nuova, come una presa di distanza dalla sua stessa vita: «sentì una fitta, e cominciò tutto». Il medico intraprende una progressiva fuga dal suo perimetro abitudinario, durante la quale si mette più o meno deliberatamente in situazioni «scabrose», un’amante passeggera esibita in presenza di numerosi conoscenti, una notte brava ad Anversa, fino alla scena che, affidata a una penna diversa da quella di Simenon, sfocerebbe apertamente nella comicità: rintracciato dal suo «persecutore», Bergelon decide per un ulteriore e più drastico allontanamento dalla regione, non già per sottrarsi a Cosson, quanto piuttosto a sua moglie, che lo cerca perché avvertita del tradimento del marito: «Cosson avrebbe pensato che lui scappava a causa sua. Non era affatto così, tanto che, per dimostrargli chiaramente il contrario, Bergelon gli avrebbe mandato il suo indirizzo non appena fosse arrivato da qualche parte».
Durante il rapido periplo che il medico compie tra Le Havre, Anversa, e Parigi affiorano alcuni ricordi che lasciano intravedere il carattere repressivo dell’educazione impartita al protagonista, fino al brano che cattura – piccolo miracolo letterario e «passaggio-Simenon» per eccellenza del romanzo – quello che Henri Cartier-Bresson avrebbe definito un moment décisif: «Ma certo! La prima volta che aveva cercato di scappare – gli tornò in mente all’improvviso (…) – aveva tredici anni (…) e aveva rubato una banconota da cento franchi dal portafoglio di suo padre con l’intenzione di raggiungere Le Havre (…). Poi non era partito, non ricordava più perché. Non sapeva che fare dei cento franchi, che lo imbarazzavano. (…) Per mesi, la banconota, arrotolata a mo’ di sigaretta, era rimasta sopra un armadio e per mesi, ogni sera, quella banconota gli aveva dato il tormento. Alla fine, un giorno se l’era ripresa e l’aveva sgualcita strofinandola su una pietra (…). All’ultimo minuto, giudicata quella precauzione insufficiente, vi aveva arrotolato intorno il fazzoletto, vi aveva aggiunto una cordicella, e aveva gettato il tutto nel fiume il più lontano possibile. E qualche settimana dopo si era spinto fino al fiume per assicurarsi che sulla ghiaia del fondo non si vedesse il fazzoletto!».
Alcune trame dei romanzi-fuga di Simenon precipitano verso epiloghi tragici, fatti di sangue o sparizioni. Non quella del Dottor Bergelon, per il quale la condanna, inesorabile quanto prevedibile, è il ritorno a casa.
Anche nei racconti riuniti sotto il titolo Il capanno di Flipke e altri racconti (traduzione di Marina Di Leo «Gli Adelphi», pp. 139, € 12,00), tutti scritti tra il 1941 e il 1945, e pubblicati su riviste e raccolte francesi, in gran parte inediti in Italia finora, la tensione narrativa digrada, con qualche eccezione, verso conclusioni stemperate che si accordano al tono colloquiale di queste storie, spesso presentate al lettore come confidenze di fait-divers, siano essi di provenienza esotica o piuttosto parigina (una querelle giudiziaria tra sorelle; un rampollo di buona famiglia che trova fortuna in Oceania; un amico che occupa la casa della nonna del protagonista). Tra esse, il più significativo è forse il racconto che chiude la raccolta, «A mani piene», nel quale si descrive il gesto spericolato di un ragazzo di campagna deciso ad accreditarsi presso la Resistenza francese sotto l’occupazione nazista. L’azione di guerriglia solitaria intrapresa dal giovane è seguita con minuzia di particolari, mentre fuori cornice resta, intuibile ma innominato, lo scenario bellico.
Sia nei protagonisti della gran parte di questi brevi racconti, sia nella approfondita descrizione, tutt’altro che marginale, del personaggio dello sfortunato Cosson del Dottor Bergelon, Simenon esemplifica una dichiarazione fatta a Gaston Gallimard, in una celebre lettera scritta, non a caso, nel 1941: «Credo fermamente che dopo il periodo aristocratico, e dopo quello borghese, non verrà il periodo operaio che il 1936 lasciava prevedere, ma quello della gente modesta, il che è ben diverso».