Disintegrata. È questa la parola pungente scelta dalla fotografa Silvia Rosi per descrivere il suo ultimo lavoro, appena presentato presso la Collezione Maramotti diretta da Sara Piccinini, a Reggio Emilia, nella cornice della XIX edizione del festival Fotografia Europea.
«Tutte le immagini della mostra sono in qualche modo – spiega l’artista – il titolo deriva da una frase che, un giorno, mia madre ha pronunciato: ’Prima ero integrata e ora sono disintegrata’. L’ho trovata interessante perché parlava dell’esperienza più ampia della diaspora, in cui si attraversano diversi viaggi all’interno di sé stessi per arrivare al punto in cui si finisce per incrociare il proprio presente».

Silvia Rosi, Disintegrata che aspetta, 2024

COSÌ, PER RESTITUIRE la sensazione di quella scissione emotiva e persistente, anche alcune fotografie sono frammentate, con strisce al lato che riproducono i test fotografici che si fanno in camera oscura, prima di stampare l’immagine «giusta», valida per l’autrice. Come se il lavoro non fosse definitivo e conservasse una possibilità inespressa: un quaderno degli schizzi ingrandito in grado di svelare lo sviluppo ideativo in un gioco a carte rovesciate fra prima impressione ed epilogo.
La personale di Silvia Rosi (nata a Scandiano nel 1992, tra San Cesario sul Panaro, Modena, Lomé, Togo e Londra) propone venti nuove opere, un video e un nucleo di fotografie d’archivio raccolte dall’artista in Italia in questi ultimi anni – soprattutto in Emilia-Romagna – setacciando il territorio con la collaborazione di Mistura Allison, Theophilus Imani e Ifeoma Nneka Emelurumonye, alla ricerca di una intimità famigliare, di quegli scatti che popolano gli album domestici e si tramandano di generazione in generazione, raccontando piccoli gesti comuni e costellazioni affettive sospese fra rari eventi e minuta quotidianità. Un archivio disperso che si cerca di ricucire attraverso i ricordi di chi ha lasciato l’Africa prima del volgere del terzo millennio.
«Abbiamo incontrato diverse famiglie condividendo momenti di conversazione mentre guardavamo insieme foto che parlavano del loro esodo negli anni ’80 e ’90. Con un appello lanciato online, abbiamo infine potuto raccogliere le immagini di molte persone. L’idea generale era quella di ’dichiarare’ il volume materiale delle fotografie, accedendo a un album collettivo, disseminato per il paese ma che in realtà non si può mai vedere».
In mostra, parte di questa indagine tassonomica, di questo puzzle diasporico in via di completamento è accumulata (riconsegnandone tutto il «peso») in una teca trasparente. E ne possiamo seguire le tracce anche nel video in cui vengono riportate le lettere – in audiocassette – dei famigliari lontani (l’artista ha raccontato di ricordare sua madre e suo padre seduti sul letto, in attento ascolto delle notizie e gli aggiornamenti). Sono spesso informazioni sulla salute, su avvenimenti ordinari, scambi di soldi, sempre venati di quella nostalgia che affida alle parole e non alla vicinanza fisica l’amore vissuto.

EREDE DELLA GRANDE tradizione di ritrattistica in studio di maestri come Seydou Keïta o Malick Sidibé, Rosi («ma io fin da bambina vedevo quelle immagini di miei parenti o persone importanti in posa, con i vestiti migliori e spesso ritratte in bianco e nero») ricrea episodi della storia di famiglia utilizzando l’interstizio che si apre, lasciando uno spazio libero e abitabile, fra memoria e autorappresentazione. C’è la reinvenzione di una trama narrativa, a volte diventata quasi un aneddoto. Come quella di suo padre che aveva dimenticato di andare a prendere la moglie alla stazione al suo arrivo in Italia – era il 1989. Nell’opera del déplacement, una donna, di spalle, guarda verso un indefinito altrove, con due valigie ai suoi piedi.
Il reenactment, la rievocazione è anche un processo di apprendimento e un ritorno a temi che riguardano le proprie radici. Come quel precedente lavoro di Silvia Rosi, Mother and Grandmother, che gira intorno allo «Sihin», il cerchio di tessuto con cui le mercanti (come erano sua nonna e sua madre) trasportano i fardelli sulla testa. È una cultura femminile africana che la fotografa riconquista, rimettendo in scena e «indossandolo» sul suo corpo quel gesto della tradizione e sapienza antica.