La storia del rapimento di Silvia Romano ha acceso un ampio dibattito nel mondo della cooperazione italiana e come nella «migliore» tradizione italiana si è optato per il «tutti contro tutti»: quando c’è un problema si risolve puntando il dito verso l’altro. È successo nella chiesa, nelle innumerevoli dinamiche della sinistra italiana, persino nella camorra dove sono nati appunto gli scissionisti. Questo perché si mette insieme, sotto la parola cooperazione, un universo di sigle e organizzazioni, dove ci sono enti grandi come formiche ed elefanti, milionari e fai da te, puristi e business oriented, improvvisati e storici.
Quindi è naturale che gli enti strutturati osservino che Africa Milele (la onlus per cui lavorava Silvia Romano) «non è una ong», «non era iscritta al registro del ministero degli esteri» in senso negativo, ponendo l’accento più sul requisito formale che sull’aspetto sostanziale dell’attività. Il tema centrale è la cura che l’ente di volontariato ha per le persone che invia. L’impatto cooperativo degli enti, lo sviluppo che apportano alla società locale andrebbe lungamente indagato. In primis andrebbe discussa l’idea stessa di sviluppo: cosa significa sviluppare un società locale? Far crescere l’economia? Migliorare la distribuzione del reddito? Tutelare l’ambiente? Far crescere i diritti? La consapevolezza delle persone? Secondo, in genere questo avviene tramite un progetto oppure in modo spontaneo si iniziano a fare delle cose, così come si percepisce dai bisogni che la gente esprime: un pozzo, una scuola, un ambulatorio. E qui scatta la seconda domanda a chi appartengono i processi decisionali? A chi mette i soldi (donatore)? Alla ong? Alla comunità locale? Metà e metà? Ma poi esiste una comunità locale? Dove inizia e dove finisce? Chi la rappresenta? Come la rappresenta?
Domande che portano gli enti a collocarsi su piani e processi diversi: ad avere più o meno personale, ad avere più o meno fondi, a fare foundrasing o autotassarsi. Che determinano storie e scelte diverse, non comparabili solo per la semplice appartenenza allo stesso settore merceologico dove il bene per alcuni si misura in fatturato, per altri in strette di mano.
Il secondo tema ricorrente nel dibattito è stata la sicurezza. Si è parlato di mettersi nel pericolo, ma il volontariato è questo: è attraversare frontiere, rompere confini, per incontrare e soccorrere l’altro. Se tuo figlio è rimasto in casa e c’è un incendio tu non pensi, sfondi la porta ed entri. Così fanno e hanno fatto in tanti.
Quando Alex Zanotelli è andato a vivere da solo, unico bianco, in una baraccopoli di 100 mila abitanti stava in una baracca di fango chiusa da una fragile porta di lamiera che chiunque avrebbe potuto sfondare. Quando Pino Meo medico del Ccm è andato in Sud Sudan, ha attraversato il confine della guerriglia per soccorrere la gente. Quando Renato Kizito Sesana ha iniziato ad andare sui Monti Nuba in Sudan, non ha pensato al rischio di entrare con un volo non autorizzato per portare generi alimentare, ma ha pensato alla gente. Quando Paolo Tablino si è messo con la sua tenda da solo in mezzo alla Rift Valley non ha pensato al pericolo, ma che quella era la sua missione. L’insicurezza del volontario è la stessa insicurezza in cui vive la gente in questi angoli della terra.
Non c’è progetto che regga all’incursione di 8 uomini armati. L’unica difesa che si può avere sono le mani nude della gente, se si è diventati parte di quel territorio, chi vi abita farà di tutto per proteggervi. Se hai la casa con la guardia giurata, il campanello di allarme sul comodino, il filo spinato lungo il muro di cinta, la panic room, sei su un piano diverso, non sei un volontario, ma forse non fai nemmeno cooperazione perché non sei agente di cambiamento.