Quattro foto di colletti bianchi (una pubblicità degli anni ’30 per la ditta Dornbusch) realizzate in bianco e nero dall’alsaziano Paul Wolff introducono ad un mondo che riguarda il lavoro, esemplare metafora del «colletto bianco» e delle dinamiche di categoria che identificano i lavoratori che «non si sporcano le mani». Nel grande archivio della collezione della Fondazione Mast di categorie, in realtà, ce ne sono parecchie: da «orario di chiusura» a «digital data», «paesaggio industriale», tra le centinaia di voci compaiono anche «high-tech», «ideologia», «migrazione», «ricchezza».

Erano i primi anni duemila quando Isabella Seràgnoli, presidente della Fondazione Mast, decise di costituire una collezione di fotografie sul tema dell’industria e del lavoro (a tutt’oggi l’unica al mondo nel suo genere) che con l’approccio metodologico e la curatela di Urs Stahel ha raggiunto negli anni oltre 6mila unità tra immagini e video, negativi di vetro e album di autori celebri e perfetti sconosciuti. Una grande raccolta in fieri che è andata a implementare il fondo, che apparteneva già alla Fondazione, di immagini e cataloghi prodotti fin dai primi del XX secolo negli stabilimenti di Coesia. Di questo straordinario materiale iconografico testimone del rapporto lavoro/società/economia è la prima volta che ne viene esposta una selezione di 500 pezzi nella mostra The Mast Collection. Un alfabeto visivo dell’industria, del lavoro e della tecnologia al Mast di Bologna (fino al 22 maggio).

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Un’ipotesi di viaggio all’interno della raccolta stessa, «memoria visuale dell’evoluzione del processo del lavoro nella società», come spiega il curatore soffermandosi su immagini iconiche quali Madre migrante (1936) di Dorothea Lange e Minamata. Tomoko e la madre (1963) di W. Eugene Smith: due madri con i loro figli, simbolo di forza e resistenza nelle difficoltà e nel dramma della vita che in un caso si focalizza sulla bracciante agricola nella California della Grande Depressione, mentre nell’altro è una sorta di Pietà moderna con la donna che tiene in braccio la figlia con una gravissima malattia causata dall’avvelenamento da mercurio del suo villaggio in Giappone. Un’energia diversa attraversa gli sguardi delle operaie fotografate a colori dal britannico Brian Griffin (l’addetta al magazzino con l’olio che le cola dalle mani e quella in fonderia) che, malgrado un certo tono glamour, mostrano l’evidente carattere combattivo, proprio come le operaie dello stabilimento Fiat Mirafiori ritratte in b/n da Paola Agosti. Se si parla di lavoro sarebbe imperdonabile non contemplare anche la parola «sciopero» presente nello scatto in bianco e nero di Giancarlo Scalfati (Milano, 1969), fotografo poco conosciuto che per un periodo condivise lo studio con Gianni Berengo Gardin (lo ricorda Giovanna Calvenzi presentando la mostra).

Dalle architetture industriali di Edward Weston al vagone strapieno della metropolitana nella stazione di Shinjuku a Tokyo di Hiro; dalle fotocopiatrici Xerox degli indiani Madhuban Mitra e Manas Bhattacharya ai bulloni di Margaret Bourke-White; dai macchinari di Thomas Ruff all’elettricità di Hiroshi Sugimoto: agli estremi di una realtà contaminata ci sono i Bagnanti felici sulla Sihl (1936) di Hans Peter Klauser con un fondale quasi irreale di ciminiere e scie di fumo e l’uomo con la coppola sul carretto con il cavallo, fotografato da Pepi Merisio davanti ai nuovissimi impianti petrolchimici (Gela, 1960 ca.), scenari non meno inquietanti del bambino nel passeggino sul balcone di casa, in via Nuova Bagnoli n. 512, a Napoli – come precisa la didascalia della foto del ’75 di Mimmo Jodice – in un presente che guarda a un futuro tossico.