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Silenzio, motore, azione: si canta!

Silenzio, motore, azione: si canta!Alida Valli

Cinema sonoro Nasceva novant'anni fa: in Italia s’inaugurava la stagione dei divi canterini, dei tenori e dei baritoni

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 16 gennaio 2021

Si sprecano i treni e le campane in La canzone dell’amore di Gennaro Righelli, lanciato nell’ottobre 1930 come «il primo film italiano sonoro, cantato e parlato al cento per cento», che non perde occasione per celebrare la novità tecnologica. Nella grande sala déco della Casa dei dischi, che è insieme luogo di vendita e studio di registrazione, dove il pubblico può assistere in diretta al «miracolo» dell’incisione, ostenta con calcolata civetteria i meccanismi della riproducibilità tecnica. Il produttore Stefano Pittaluga – che riorganizza i vecchi stabilimenti Cines dotandoli di apparecchiature sonore – coinvolge nell’operazione anche Luigi Pirandello, autore della novella da cui è tratto il soggetto. Lo scrittore siciliano, che solo pochi mesi prima aveva sprezzantemente inveito contro «il film parlante», «voce di macchina, sguaiato borbottamento da ventriloqui, accompagnata da quel ronzìo e friggio insopportabile dei grammofoni», si complimenta con «l’esperto régisseur» e loda «il riuscito collaudo degli impianti e delle capacità degli artefici». L’enorme successo del film deve molto a Solo per te Lucia, la canzone di Cesare A. Bixio e Bruno Cherubini, destinata a sua volta a diventare popolarissima.

Vittorio De Sica
Il cinema canoro italiano trova in Vittorio De Sica il suo primo divo, il solo che dal teatro riesca a passare al cinema, arrivando ai dischi e alla radio, attraverso una strategia di rimandi e di sinergie multimediali che si delinea sin dall’inizio degli anni trenta sullo sfondo di un’industria culturale più smaliziata di quanto solitamente si creda, pronta a soddisfare se non a promuovere i consumi del pubblico borghese. Due cuori felici (1932) di Baldassare Negroni guarda strabicamente al prototipo tedesco che risente del gusto mitteleuropeo dell’operetta e alle riviste musicali allestite pochi mesi prima dalla Za-Bum n. 8 di Mario Mattoli. Sullo sfondo degli arredi altoborghesi firmati da Gastone Medin, gli attori si aggirano in frac e cilindro, mentre per le signore sono d’obbligo la pelliccia e l’abito lungo con lo strascico. Quando nel salone dell’automobile gli impiegati della filiale cantano in coro «How Do You Do, Mister Brown?», la caricatura strizza l’occhio al modello americano già dominante nell’immaginario dell’epoca. Se Mattoli intuisce per primo le qualità dell’attore e le sue propensioni per lo spettacolo leggero, Mario Camerini contribuisce in modo determinante a indirizzare il personaggio De Sica verso i tratti della riconoscibilità realistica sin da Gli uomini, che mascalzoni… (1932), ambientato negli stand della Fiera di Milano, tra le scritte della cartellonistica e le prime avvisaglie della pubblicità di massa, suggerendo lo spazio paradigmatico in cui De Sica in bicicletta che insegue Lia Franca sul tram diventa un’immagine proverbiale della nostra identità collettiva. Se anche questa volta canta, è solo per dare la replica all’organino della trattoria sui laghi. «Parlami d’amore Mariù» di Bixio e Ennio Neri è la canzone feticcio a cui nel corso degli anni l’attore deve almeno in parte la sua tenace popolarità di divo: «Parlami d’amore, Mariù:/tutta la mia vita sei tu!/Gli occhi tuoi belli brillano,/come due stelle scintillano./Dimmi che illusione non è; dimmi che sei tutta per me!/Qui sul tuo cuor, non soffro più,/parlami d’amore, Mariù».

Femme fatale
Nel divismo femminile dell’inizio anni trenta, Isa Miranda – l’unica attrice che viene dalla parte del pubblico, ma è lanciata come una sorta di sintesi impossibile tra Marlene e Greta – resta il solo mito internazionale dello stardom italiano, imprigionato nella camicia di forza della donna fatale sin da La signora di tutti (1934) di Max Ophuls, in cui canta con la sua voce inconfondibile la canzone omonima di Ruggero Lerchi e Daniel Dax: «Tutto è finito, finito è l’amore,/non tornerà mai più!/Svanito è per sempre il mio sogno d’amore/nel tempo che già fu!/Io sono la signora di tutti/ma tanto infelice perché/io sono l’amore del mondo/nessuno, nessuno è per me!»). L’esibizione feticistica del disco, che all’inizio accompagna la transazione commerciale avviata dall’agente Franco Coop con il produttore Mario Ferrari («Non è una voce meravigliosa questa?»), è soltanto uno degli ingredienti del puzzle mediologico di un film in cui il melodramma – tra sofisticati movimenti di macchina e incessante frastuono delle rotative – diventa lo scenario privilegiato della costruzione/decostruzione della diva della riproducibilità tecnica, esaltata dall’ipnotico sonnambulismo dell’attrice. Quasi l’emblematica metafora d’avvio dei complessi rapporti tra immagine e musica nel cinema italiano degli anni trenta.

Ma l’amore no
Alida Valli entra giovanissima, e già dotata di una straordinaria fotogenia, nell’ingranaggio della produzione cinematografica, interpretando una dopo l’altra un gran numero di commedie. La più fortunata è Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld, un telefono bianco d’ambientazione finto-ungherese in cui con la sua aria svagata ascolta la canzone di Alessandro Sopranzi e Carlo Innocenzi cantata alla radio da Anna Doré, una sorta di sigla musicale del costume dell’epoca: «Che disperazione,/che delusione dover campar,/sempre in disdetta,/sempre in bolletta!/Ma se un posticino/domani, cara, io troverò,/ di gemme d’oro/ti coprirò./Se potessi avere/mille lire al mese,/senza esagerare, sarei certo di trovare/tutta la felicità!/Un modesto impiego,/io non ho pretese,/voglio lavorare per poter alfin trovare/tutta la tranquillità!/Una casettina/in periferia,/una mogliettina/giovane e carina, tale quale come te». Solo più tardi il temperamento drammatico dell’interprete trova finalmente modo di rivelarsi in una nuova e più matura stagione della sua attività, di cui Stasera niente di nuovo (1942) di Mattoli rappresenta uno dei momenti più suggestivi. Alida vi canta sommessamente «Ma l’amore no» di Michele Galdieri e Giovanni D’Anzi, la canzone cult della sua carriera: «Ma l’amore, no./L’amore mio non può/disperdersi nel vento con le rose/tanto è forte che non cederà non sfiorirà./Io lo veglierò/io lo difenderò/da tutte quelle insidie velenose/che vorrebbero strapparlo al cuor, povero amor!».

La sciantosa
Nello stesso periodo si fa notare Anna Magnani, che soltanto nel dopoguerra conoscerà la sua piena affermazione di attrice. L’apparizione più divertente, tra le tante canzonettiste collezionate nel corso del decennio, è quella di Loletta Prima, la «sciantosa vampiressa» di Teresa Venerdì (1941) di De Sica, che si conquista un posto nella memoria degli spettatori cantando «Qui nel cuor» di D’Anzi: «Qui nel cuor/c’è un amor/c’è un dolor./Qui sul sen/qui sul sen/c’è il mio ben/col tuo ben/sempre più sempre più/nel mio cuor ci sei tu./Non tremar/non morir/sì, t’amo tanto da impazzir».

I tenori
Il mito del tenore italiano è all’origine di una vasta fioritura di film in cui la canzone si affianca e talora prevale sulle romanze delle opere liriche. Il cantante più celebre è Beniamino Gigli, uno dei più grandi tenori di tutti i tempi, scritturato al Metropolitan di New York per dodici stagioni consecutive dal 1920 al 1932. Se è clamoroso il successo di «Mamma» (1941) di Guido Brignone, che lancia la canzone omonima di Bixio e Cherubini («Mamma,/solo per te la mia canzone vola./Mamma,/sarai con me, tu non sarai più sola!/Quanto ti voglio bene/queste parole d’amore/che ti sospira il mio cuore/forse non si usano più./Mamma,/ma la canzone mia più bella sei tu!»), Silenzio, si gira! (1943) di Carlo Campogalliani è tra i suoi titoli più interessanti, dove canta «Dimmi tu primavera» di Bixio e Alvaro Ferrante De Torres. La scena dell’albergo conferma ancora una volta qual è il suo personalissimo passaporto, la sua ineguagliabile carta d’identità. Se alla reception non lo riconoscono e il suo assegno è rifiutato, sin dalle prime note della canzone gli ospiti si avvicinano per sentire meglio e si fanno catturare ancora una volta dalla sua magia. «Basta la voce», dice il direttore dell’hôtel, mentre scrosciano gli applausi.

Il film sfrutta l’ambientazione nei teatri di posa di Cinecittà, mescolando abilmente il mito del tenore con i capricci da star, il gioco del doppio che anima la vicenda, le strizzate d’occhio al mondo del cinema e alle tecniche della registrazione sonora. Il gusto metacinematografico esplode in «Cinefollia», la canzone di Bixio e Ferrante De Torres, che accompagna il balletto finale mentre sullo specchio-schermo scorrono i volti dei divi: «Oh cinemà,/incanto e splendore della vita,/la cara vita,/il miraggio favoloso d’ogni cosa./La sartina, il colleggial,/il borghese, il provincial,/tutti pensano al cinemà./Oh cinemà/tutti sognano la celebrità./Oh perché?/Perché/nulla può fare sperare palpitare come te cinemà./Oh cinemà,/la pellicola che gran novità/gira e va,/l’illusione sei davver cinemà».

«Vivere/senza malinconia/vivere/vivere/senza più gelosia/senza rimpianti,/senza mai più conoscere cos’è l’amore,/cogliere il più bel fiore,/goder la vita e far tacere il cuore./Ridere/sempre così giocondo,/ridere/delle follie del mondo». Così canta Tito Schipa con la sua voce profonda nell’orecchiabile canzone di Bixio, il leitmotiv di Vivere! (1936), il film di Brignone, uno dei maggiori successi degli anni trenta, replicato subito dopo con Chi è più felice di me! (1937). Il film più importante di Giovanni Manurita, un altro dei grandi tenori dello schermo, è La voce senza volto (1939) di Gennaro Righelli, ambientato nel set del film canoro in cui Carlo Romano, che impersona il tenore di successo, perde improvvisamente la voce. Scritturato Giovanni Manurita, l’operaio dall’ugola d’oro che lo deve sostituire senza farsi accorgere, gli si impone di non parlare con nessuno del suo lavoro. Quando si mette a cantare fuori copione per ristabilire la verità, non solo si inventa il play-back, ma si svelano gli altarini dell’industria discografica e il potere mistificatorio delle nuove tecniche.

La voga del baritono risale a Retroscena (1939), con cui Alessandro Blasetti gioca a rifare il verso ai modelli hollywoodiane della screwball e della sophisticated comedy, in bilico tra verità e finzione, vita e spettacolo, scena e platea. Nei battibecchi tra il baritono Alberto De Sanni (Filippo Romito) e la pianista Diana Martelli (Elisa Cegani), il modello di riferimento («Cosa crede la signorina Martelli, che le commedie americane le sa fare soltanto lei?») non è solo l’involucro dello spettacolo, ma lo spettacolo stesso, sorvegliato dallo sguardo attento del maître che dirige il traffico come un regista cinematografico, mentre si aprono e si chiudono le porte girevoli del grand hôtel. Come ogni baritono del cinema, oltre ai brani del suo repertorio lirico, anche il protagonista si cimenta con motivi più leggeri come «Se l’amore fugge» di D’Anzi. Ma quando un noto critico stronca le sue qualità canore, finge di essere il grande artista polacco Soblonscky, subito portato in trionfo, sbeffeggiando senza pietà l’esterofilia del pubblico italiano.

Come si fa un film con un baritono? Fuga a due voci (1943), di Carlo Ludovico Bragaglia, risponde brillantemente alla domanda mettendo in scena con disinibita spudoratezza le difficoltà di un produttore e dei suoi sceneggiatori, impegnati a escogitare la trama di un film che abbia come protagonista un baritono. Il doppio piano del film nel film esce dal set per contaminare anche il resto della commedia, dalla sequenza della stazione ai tentativi di pernottamento. Gino Bechi che canta in piazza «Soli, soli nella notte» di Bixio e Nisa, cioè Nicola Salerno, vale come una esplicita dichiarazione di poetica della finzione, in cui tutto è costruito, falso, artificioso: un gioco di specchi. Non meno celebre diventa «La strada nel bosco» di Bixio, Nisa e Ermenegildo Rusconi, l’altro motivo cantato da Bechi nel film: «Vieni, c’è una strada nel bosco,/il suo nome conosco,/vuoi conoscerlo tu?/Vieni, è la strada del cuore,/dove nasce l’amore/che non muore mai più./Laggiù, tra gli alberi, intrecciato coi rami in fior,/c’è un nido semplice/come sogna il tuo cuor». Nessuna sorpresa se, in uno strepitoso finale alla Woody Allen, la protagonista abbandona il fidanzato per raggiungere il cantante sullo schermo.

Musical
Il mito dell’America domina l’intero periodo, nonostante le intenzioni polemiche e le ambizioni parodiche di molti film. Come avviene in Dopo divorzieremo (1940) di Nunzio Malasomma, dove le schermaglie sentimentali di Lilia Silvi, Amedeo Nazzari e Vivi Gioi sono scandite da «C’è un’orchestra sincopata» di Bixio e Cherubini, cavallo di battaglia del Trio Lescano. La messinscena da musical è tipica delle cadenze iperboliche del cinema bianco, dove l’abito fa il monaco. Quando si veste da gran dama anche Lilia Silvi è bellissima. Amedeo sostituisce gli stracci da vagabondo per il frac e diventa subito il grande musicista che dirige con curiosi gesti isterici l’orchestra sincopata, senza smettere mai di strizzare l’occhio alle signore.

Primo amore (1941) di Carmine Gallone, con la sua oscillazione tra Pietro Redi e Peter Reed, jazz e musica classica, Italia e America, finisce con l’essere un documento d’epoca a suo modo curioso e paradossale, soprattutto all’inizio degli anni quaranta in cui trionfa lo «stile Rabagliati». Il clamoroso successo di Alberto Rabagliati arriva al cinema con un gruppo di film in cui si ripropone il personaggio del cantante idolatrato dal pubblico femminile. Nella sequenza del calesse di La vita è bella (1943) di Carlo Ludovico Bragaglia, fingendo che la voce provenga dall’apparecchio radiofonico sulle sue ginocchia, canta «Mattinata fiorentina» di D’Anzi e Galdieri («È primavera svegliatevi bambine,/alle Cascine, messer Aprile fa il rubacuor») e «Lontano» di D’Anzi e Alfredo Bracchi («Lontano quando la notte tutto tace/io sento ancora la tua voce/che mi accarezza l’anima»).

Il ruolo emergente del medium è al centro di «Quando la radio», la singolare canzone metalinguistica di Carlo Prato e Riccardo Morbelli dello stesso periodo, che rievoca il romanzetto sentimentale in cui gli innamorati si servono di un alfabeto a chiave per comunicare tra di loro, basato sulla complicità della radio: «Quando la radio trasmette da Torino/vuol dir stasera ti attendo al Valentino/ma se ad un tratto si cambia di programma/questo vuol dire “attento c’è la mamma”./Radio Bologna vuol dire il cuor ti sogna,/Radio Milano ti penso da lontano,/Radio Sanremo stasera forse ci vedremo/e Radio Igea vuol dir lontano da te mi sento morì./O quanti appuntamenti amore mio ci siamo dati/per mezzo della Ternini, di Alberto Rabagliati,/senza volerlo tutti ci hanno dato un po’ una man/perfino Petralia, la Fioresi e il Trio Lescan».

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