Gli «almanacchi, almanacchi nuovi» sarebbero (molto leopardianamente) assai deludenti per chi volesse reclamizzare le nuove chances della scena italiana. L’unica vera novità, per ora, è l’organizzazione dell’intervento statale nel settore, dove qualsiasi soggetto deve dare forma e nome adeguati alle proprie aspirazioni (di sovvenzionamento, innanzitutto) entro il prossimo 31 gennaio. Scade a quella data la presentazione delle domande di riconoscimento, e conseguente contributo ministeriale, da parte di tutti coloro che fanno teatro in Italia.
L’elaborazione primigenia della «riforma» era stata dell’ex ministro Bray. Caduto questi col governo Letta, tutto è stato rielaborato e aggiustato dall’onnipotente direttore generale dello spettacolo al ministero, Salvo Nastasi. Su tutto questo si è imbarcato con l’entusiasmo del neofita (ma con pressanti suggerimenti in famiglia, come dicono i teatranti, e i giornali rosa) l’improvvido ministro attuale Franceschini, che ne ha firmato il decreto.

Ma la nebbia burocratica e «identificativa» delle più diverse realtà teatrali si è fatta più fitta in questi mesi, generando situazioni che sono state spesso anche comiche e paradossali. Perché senza tema del ridicolo, si è tentato di accorpare istituzioni macro e minuzie private, o realtà i cui interessi sono stati per decenni contrapposti e conflittuali.

Per tentare di dividere una cifra destinata a non impinguarsi, ma piuttosto a impoverirsi (il fatidico Fus, il Fondo unico per lo spettacolo, da cui dipendono teatro e musica, danza e circo) con un criterio più sensato che in precedenza, quando spesso finiva per prevalere il favore biecamente politico, sono state abolite tutte le categorie preesistenti, dagli stabili ai privati, dalla sperimentazione alla «tradizione». Ora si prevedono un nucleo ristretto di «teatri nazionali», a parte il Piccolo di Milano già consacrato «teatro d’Europa», una certa cifra di teatri di interesse culturale, i centri di ricerca sulle varie discipline, e solo da ultimo le compagnie e i gruppi teatrali. Ma per ognuna di queste categorie sono state previste modalità capestro: per sale e posti a disposizione, numero di rappresentazioni (in gran parte da tenere nella propria sede, a prescindere dal bacino reale di pubblico che quella può offrire), per giornate lavorative (con previdenza e contributi ovviamente per tutti i dipendenti), e per gli aspiranti al titolo di nazionali, c’è anche la necessità di una scuola di formazione teatrale.

Tutte cose che sarebbero ovvie e sacrosante, se fino ad oggi non avessero spesso imperato faciloneria e e progetti altisonanti solo a parole, cambiamenti in corso d’opera e, in più di un caso, vere e proprie ricevute false: i famosi borderò destinati alla Siae che qualcuno era abile a predisporre «un tanto al chilo». Ora non dovrebbero più valere preventivi imperscrutabili e consuntivi invisibili per il pudore. Tutto dovrebbe essere controllabile e controllato dalle nuove leve che finalmente si vedono al ministero, ma anche coordinarsi con contributi e servizi forniti dagli enti locali, il cui rapporto con quelli statali è previsto in quote percentuali già fissate, e reciprocamente necessarie.

Tutto questo (e molto altro ancora) costituisce una gabbia che sicuramente sarà difficile da indossare, a parere di molti. E tra questi non manca chi teme il tracollo definitivo del settore teatrale, l’ultima chiusura di sipario… Non per pessimismo o per amor di catastrofe. Ma anche solo a veder come è governato oggi un «reparto culturale» che dovrebbe essere di primaria importanza, come la lingua, o la scrittura. Le nomine politiche basate sulla spartizione (se non su interessi paramafiosi) hanno prodotto vertici di scarso livello, programmi congestionati nel numero ma disabitati da qualsiasi intelligenza o progetto. Tutti i nuovi dirigenti appena nominati si affrettano a dire che tale teatro finirà di essere solo «teatrale», per aprirsi a nuovi ruoli: civici, «culturali», letterari o quant’altro. E il teatro chi lo dovrà fare? Fa tristezza, e anche rabbia, vedere sale storiche (o spazi di nuova generazione) trasformati in baracconi d’arte varia: ogni sera un evento (parola ormai indicibile, meglio senza la «e« iniziale, da libeccio stagnante…) di qualsiasi pretestuosa mondanità salottiera.

È un discorso sgradevole, e infatti se ne guardano bene le piccole e grandi consorterie che, anche nei partiti che furono di sinistra e oggi son renziani, si agitano solo per piazzare su un palcoscenico le proprie poco artistiche creature. Così che ora una nuova schiera di direttori, neanche giovanissimi (e qualcuno ben navigato, anche troppo) prende il comando di gloriose istituzioni (con motivazioni, da parte dei politici che li nominano, quanto meno imbarazzanti) e gioca di algebra e bugie per assicurarsi l’inquadramento in una delle categorie citate. Una scena pirandelliana, a voler guardare con distacco. Che poi diventa tragedia antica alla vista dei teatri chiusi, sfrattati, sequestrati, o incautamente affidati…

E che almeno sulla carta trova conferma nei programmi prevalenti di questa stagione ormai iniziata, o forse già agli sgoccioli. Una stagione pullulante di comici e personaggi televisivi, di sopravvissuti e di suonati, così che stanno sulle dita le vere curiosità imminenti, e varrà la pena di osservarle con cura.