Più che un primo disco sembra la consacrazione del percorso che da tanti anni vede Signor K impegnato in lavori di prestigio. Infatti Saremo tutto (Bonnot Music – Goodfellas) è la sintesi di come il rap sia anche un mezzo per dar voce ai problemi della gente, ha un flow incalzante, le basi colpiscono duro, arriva dopo due street album e le interminabili peregrinazioni di Signor K per il Paese: «Le sonorità anni ’90 sottolineano la mia lunga adesione alla cultura Hip Hop ma ci sono diversi motivi per cui un disco ufficiale arriva solo oggi. Il più importante è che il rap rappresenta solo una delle sfaccettature della mia pratica politica: nel mio curriculum non c’è grande differenza tra rapper, attivista sindacale, social worker e ricercatore. Sono tutte queste cose. La genesi del brano che parla di diritto all’abitare è un buon esempio di questo approccio: dietro c’è una stagione di battaglie con le famiglie senzacasa, nonché una ricerca sulle politiche abitative a Milano. C’è voluto tutto questo tempo perché sono successe un sacco di cose.

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Si comincia con il G8 di Genova, poi la TAV, operai senza lavoro e tanti altri drammi d’Italia. C’è ostracismo verso i musicisti militanti?

La mia musica affonda le sue radici nel movimento delle posse, attraverso cui il rap sbarcò in Italia. Nel corso degli anni ’90 si sviluppò una scena che prese nettamente le distanze dalle posse, sotto accusa fu la tendenza a trascurare la tecnica in favore del messaggio ma anche l’idea che la politica non c’entrasse nulla con la cultura hip hop. Negli Stati uniti artisti come Public Enemy e Dead Prez hanno contenuti fortemente connotati, ma chi metterebbe in discussione la matrice hip hop? Il fatto che i rapper prendano la parola nel dibattito pubblico non è un fatto inconsueto nemmeno in Francia. In Italia, ho l’impressione invece che questo pregiudizio permanga: non mi sono mai scontrato con aperto ostracismo, ma alle volte sento che la mia musica è percepita come qualcosa di ‘altro’. Ciò ha paradossalmente rafforzato il mio progetto musicale, allo stesso tempo però, ricomporre quella frattura tra hip hop e politica rimane una mia ambizione.

Chiedilo alla libertà è una canzone dedicata alla Resistenza. Cosa significa oggi resistere?

La risposta è nel disco, in ogni brano affronto un problema dell’Italia ma cerco di dare anche un antidoto. Il brano che parla di Tav, parla anche dell’opposizione popolare a questa e ad altre mille grandi opere onerose, inutili e impattanti, da nord a sud; analogamente, il pezzo sul lavoro parla di operai che difendono la propria azienda dagli esiti della finanziarizzazione, quello sul diritto all’abitare racconta le lotte delle famiglie senzacasa contro speculazione e negazione di diritti, così come quello sulla mafia, parla anche di chi si batte quotidianamente per difendere la propria comunità. Il brano La Città di Sotto ripropone questa chiave interpretativa, mettendo a confronto le due città che emergono nel territorio che abito: quella dominata dall’imperativo della crescita e attraversata da diseguaglianze insopportabili, e quella delle periferie, luogo di contraddizioni ma anche di grande umanità. In Si Chiama Mafia si dice: «c’è una parte del Paese che non si rassegna, l’antidoto sociale in questa rabbia degna». Ecco, per me oggi la parola resistenza è il contrario di rassegnazione e resistere significa aspirare – il che spiega perché il titolo del disco sia Saremo Tutto.

Visto il tuo background qualcosa della scena rap attuale potrebbe non piacerti…

L’hip hop parla soprattutto alle giovani generazioni. Sono in debito verso quei rapper che mi hanno insegnato la strada giusta. Il modo per saldare il debito è assumere io stesso le responsabilità che questa cultura impone, ecco perché non digerisco la retorica apologetica della vita illegale, il ricorso a messaggi di facile presa senza preoccuparsi del loro impatto. L’assenza di responsabilità annulla lo statuto pubblico dell’hip hop e la sua carica rivoluzionaria.

Nel disco si sente ed è determinante l’influenza di 99 Posse e Assalti Frontali. Cosa può dare la cultura hip hop per un risveglio della musica italiana?

Le collaborazioni qualificano il mio orientamento all’interno della scena. A cominciare da Bonnot, una delle colonne portanti di Assalti Frontali e producer con cui il disco è stato realizzato. Oltre a lui c’è il resto della crew di Assalti Frontali, Inokiness, Zulù dei 99Posse e M1 dei leggendari Dead Prez. Osservando questo epicentro nel suo insieme, penso che il nostro contributo potrebbe risiedere nella possibilità che rappresentiamo. È la rotta indipendente che Militant A cantava in un brano storico di Assalti Frontali: non solo un modo di fare musica, ma anche un modo altro di fare società».