«Non so se caffè e zucchero siano essenziali alla felicità dell’Europa – scriveva Bernardin de Saint-Pierre già nel XVIII secolo – so però bene che questi due prodotti hanno avuto molta importanza per l’infelicità di due grandi regioni del mondo: l’America fu spopolata in modo da aver terra libera per piantarli; l’Africa fu spopolata per avere le braccia necessarie alla loro coltivazione». Proprio da questa prospettiva si avvicina alla questione Sydney Mintz nella sua Storia dello zucchero, Tra politica e cultura, un classico dell’antropologia e della storia sociale, apparso per la prima volta nel 1985, e ora riedito da Einaudi (pp. 308, € 24,00). Il titolo originale, non conservato in questa traduzione italiana, è Sweetness and power (dolcezza e potere) a indicare le due principali direzioni di ricerca su cui il libro si articola: la ricostruzione della diffusione dello zucchero e dei cibi dolci in Inghilterra da un lato; e dall’altro, le conseguenze politiche e sociali della produzione della canna da zucchero, che si legano alla colonizzazione, alla schiavitù, alla profonda modificazione degli assetti paesaggistici e sociali soprattutto dell’America latina.

Nel corso delle sue ricerche etnografiche nei Caraibi, condotte dalla fine degli anni Quaranta, Mintz si era reso conto di quanto profondamente la storia delle piantagioni di canna da zucchero (oltre che di cacao, caffè e tabacco) avesse plasmato antropologicamente queste aree e, al tempo stesso, si era convinto che quella storia era legata alla niente affatto scontata formazione della domanda di zucchero in Europa, a sua volta legata a cambiamenti lenti e profondi delle abitudini alimentari e all’affermarsi di nuovi e distintivi gusti, fra le classi aristocratiche e poi anche fra quelle popolari.

Raro e costoso
Prima del tardo Medioevo, lo zucchero era prodotto (già con l’impiego di schiavi) nel mondo arabo ma non più a nord: in Europa l’uso si diffuse solo in età moderna, e per esempio già la nobiltà inglese del XVII secolo ne era una sistematica consumatrice. Raro e costoso, il prodotto era un indicatore di rango e veniva usato nelle medicine e in cibi pregiati, per poi entrare in età contemporanea nella dieta dei ceti anche più bassi, diventando una delle principali fonti di apporto calorico. L’analisi dei passaggi che portano a questa diffusione è condotta da Mintz in modo esemplare, da un lato considerandone la dimensione strutturale, ovvero le tecniche di coltivazione, il dominio coloniale, lo sviluppo dei mercati internazionali, gli interessi di categorie diverse come i proprietari di piantagioni , i banchieri, i mercanti di schiavi, gli armatori e i mercanti, i governi interessati a dazi e tasse e così via; ma d’altro canto anche considerandone la dimensione simbolica, vale a dire i significati culturali che lo zucchero, e il cibo dolce più in generale, assumono nelle diverse classi sociali e nei diversi contesti storici.

Per buona parte dell’età moderna, il prodotto viene raccomandato come medicinale e rinvigorente; lo si comincia quindi a usare come conservante per la frutta nelle marmellate, nelle gelatine e negli sciroppi, come dolcificante in associazione con altri prodotti tropicali che arrivano in Inghilterra dalle colonie, come il caffè, il cioccolato e il tè. La storia dello zucchero disegna un progressivo spostamento dall’alto al basso della scala sociale, e questo è consentito, fra l’altro, a metà Ottocento, dal crollo dei prezzi dovuto alle misure di libero scambio e all’abbattimento dei dazi. Inoltre, in Inghilterra, un ruolo è giocato dal sistema di fabbrica che assorbe sempre più le donne, modificando gli usi alimentari tradizionali, e scoraggiando la preparazione domestica di pane e porridge, in parte sostituiti con cibi conservati a forte apporto calorico, pronti da mettere in tavola (così come il tè, di preparazione istantanea, sostituisce la birra fatta in casa).

Del resto, i significati che lo zucchero assume nella vita quotidiana sono anche più complessi: i dolci vanno a costituire una classe particolare di cibi, che differenziano ruoli sociali diversi (uomo e donna, giovani e anziani), e si inseriscono con funzioni specifiche nei cicli temporali della settimana e dell’anno, nel calendario festivo e rituale.
Cucinare e consumare cibi e bevande dolci, in gruppo o privatamente, spesso con l’uso di decorazioni tradizionali (lo zucchero poteva essere scolpito), finisce per connotare eventi e celebrazioni speciali, riti di passaggio, occasioni di ospitalità. Si costituisce insomma un vero e proprio codice culturale che cambia nel tempo, variando a seconda delle diverse nazioni europee, e nel complesso approdando all’oggi. Una riflessione complessiva sulle pratiche alimentari nella tarda età industriale chiude il saggio di Sydney Mintz, evidenziando la progressiva scomparsa delle grammatiche simboliche del cibo.

L’industrializzazione degli alimenti, il peso crescente dei pasti consumati fuori casa e degli snack o dei cibi precotti, l’individualizzazione e l’insofferenza per i pasti troppo lenti o a orari fissi disegnano un quadro inedito. Il consumo di zucchero aumenta ulteriormente, insieme a quello dei grassi; ma sono zuccheri non domestici, contenuti nei più vari cibi industriali e per certi versi invisibili. Di fronte alla moda del fast food e delle bibite gassate, Mintz non cade in atteggiamenti moraleggianti o apocalittici, piuttosto legge queste trasformazioni come uno fra i tanti passaggi nella lunga storia del saccarosio. «Le diete sono ricreate perché l’intero carattere produttivo della società e, con esso, la natura profonda del tempo, del lavoro e del riposo sono stati rimaneggiati», scrive in una osservazione che si potrebbe applicare anche agli sviluppi che la sua analisi non fa in tempo a prendere in considerazione, essendo stata pubblicata a metà degli anni Ottanta.

Figlio del capitalismo
Negli ultimi decenni, allo zucchero è stata riservata la considerazione che si riserva ai nemici, all’interno di un immaginario che inverte il rapporto tra prezzo e calorie: siamo disposti a spendere di più per consumare meno calorie, al contrario di quanto è quasi sempre accaduto in passato. Non solo a una accresciuta conoscenza medica e alla nuova sensibilità salutista è dovuto tutto ciò, ma soprattutto a cambiamenti profondi nei modi e nei tempi di vita, nell’organizzazione del lavoro e nel rapporto con i consumi e il divertimento, all’interno delle ristrutturazioni subite dalla produzione e dal mercato.

«Figlio prediletto del capitalismo», secondo l’antropologo cubano Fernando Ortiz, lo zucchero era divenuto con il tempo patrimonio della classe operaia, e con essa entrò in crisi, inaugurando l’ultimo capitolo, ancora da scrivere, della sua storia.