Walter Sickert, “Self Portrait”, 1896 ca., Leeds Art Gallery

Ero di fronte al ritratto di Thomas Beecham, visto dal basso in alto mentre dirige l’orchestra descrivendo con le braccia un ampio semicerchio su uno sfondo compatto color prugna, il viso divorato dal buio, capolavoro tardo con cui si chiude la grande mostra di Walter Richard Sickert (1860-1942) allestita fino al 18 settembre alla Tate Britain di Londra (a cura di Emma Chambers e Thomas Kennedy; in autunno sarà al Petit Palais di Parigi), quando è comparso dietro di me un vecchio signore elegantissimo, completo grigio, ombrello nero e bombetta sulla testa: aveva la luna storta e, uscito dalla mostra, si è avviato curvo ma veloce verso il Tamigi. La mascella quadrata e il portamento mi hanno indotto a fantasticare e a chiedermi se non fosse Sickert redivivo venuto a visitare la sua mostra e soprattutto se l’esprit mal tourné dell’anziano gentiluomo non avesse qualche motivo di esistere perché a tutta prima la mostra è formidabile: più ricca di quella, memorabile, del 1992 alla Royal Academy.
A trent’anni di distanza Sickert non appare cambiato: è un pittore cupo, talora sardonico, specie nei titoli, ma più spesso splenetico; perciò, malgrado sia probabilmente il maggior pittore inglese tra il romanticismo e Francis Bacon, è mal noto nel resto d’Europa. Era nato nel 1860 a Monaco di Baviera, da un artista tedesco di origine danese e una madre inglese. All’età di otto anni si trasferì con la famiglia a Londra, ma rimase sempre un cittadino del mondo, versato in lingue e dialetti, di casa a Londra come a Parigi, a Dieppe come a Venezia. Fu anche un magnifico scrittore d’arte, capace però talvolta, per amor di polemica, di sostenere posizioni indifendibili.
Sickert, che avrebbe voluto fare l’attore, a poco più di vent’anni ebbe la ventura di entrare nelle grazie di J.A.M. Whistler, artista americano interprete di una pittura di vita moderna che, invece di andare dalla parte dell’impressionismo, si era diretta verso un protosimbolismo estetizzante. Sickert rimase sotto l’influsso di Whistler per qualche tempo, ma presto si convertì al verbo più solidamente naturalistico di Edgar Degas – incontrato a ventitré anni a Parigi tramite Whistler –, che sarebbe diventato il suo vero maestro. Da Degas apprese che il quadro doveva essere realizzato al termine di un processo graduale, che andava dai disegni dal vivo alla tela, dipinta con un metodo paziente e una materia rilevata e sensibile. Quanto ai temi, Degas insegnò a Sickert a dipingere due aspetti della vita moderna che, assieme ai ritratti e ad alcune scene di genere, costituirono le colonne portanti nella lunga carriera del pittore: il music hall e i nudi di donna in interni domestici.
Il music hall della fine degli anni ottanta era ancora il divertimento della classe operaia, capace, come notava T.S. Eliot, di emozionarsi, identificarsi e commuoversi al canto di Marie Lloyd. Che si concentri sulla scena o sul pubblico, Sickert dipinge un music hall fedele al suo radicamento sociale, costruendo quadri di spazialità complessa, come Little Dot Hetherington at the Bedford Music Hall (1888-’89): mediante un difficile gioco di cornici, specchiere e riflessi l’artista mostra, con sguardo indiretto, la piccola attrice illuminata da un faro di proscenio, con la mano alzata verso il suo pubblico. Lo stesso che quasi vent’anni dopo, quando il music hall delle origini è ormai al tramonto, riappare, visto ora con occhio retrospettivo e nostalgico, in Noctes Ambrosianae (1906), una scena dove gli spettatori della piccionaia guardano rapiti un palcoscenico a noi invisibile.
I quadri di music hall pongono Sickert tra i capifila del rinnovamento dell’arte inglese nell’ultima fase del regno della regina Vittoria e durante quello del figlio Edoardo. Fra il 1898 e il 1905, tuttavia, Sickert, dopo aver perso una causa che lo aveva opposto a un allievo prediletto di Whistler, Joseph Pennell, trascorse sette anni fuori dall’Inghilterra. Pennell lo aveva condotto in tribunale perché si era sentito da lui calunniato su questioni relative alle tecniche litografiche, e nella circostanza Whistler fu testimone d’accusa.
In questo volontario esilio l’artista si mosse tra la Francia e Venezia. E proprio a Venezia, accanto alla visione di scorci canonici e anche insoliti della città storica, inizia a dipingere con continuità figure di donne, nude o vestite, in interni poveri e spogli. I soggetti preferiti sono Carolina e Giuseppina, modelle a tempo perso e lavoratrici del sesso: Carolina appare come un fantasma sinistro e ghignante, seduta su un divano ne Le châle vénitien (1903-’04). Giuseppina è invece, probabilmente, la ragazza distesa sul letto, col sesso in vista, in Fille vénitienne allongée, un piccolo quadro che rimanda al più grande L’indolente (1899) di Pierre Bonnard, in mostra alla Tate come opera di riscontro, assieme a due nudi: uno di Degas e l’altro, legnoso e difficile (ma stupendo), di Lucian Freud.
Dopo il ritorno a Londra, nel 1905, Sickert continua a lavorare sul tema: corpi di donne svestite iniziano a popolare le camere malfamate di Camden Town, dipinti senza compromessi con il passato vittoriano (e senza pietà per le creature ritratte), come avviene ne La Hollandaise, un’Olympia ruotata di novanta gradi, con la luce che le mangia i lineamenti, o nei quadri ispirati al truce omicidio della prostituta Emily Dimmock.
Sickert era tornato in Inghilterra perché un gruppo di giovani aveva bisogno di una guida come lui: irriverente, eterodossa, al corrente dell’arte moderna francese, un enfant terrible di quarantacinque anni, come appare nell’autoritratto The Juvenile Lead (1907), dove egli si dipinge sorridente e pugnace, pronto a mettersi in gioco.
Dal 1905 al 1910 S egli sarà in effetti la punta dell’arte inglese avanzata. Di lì a poco, tuttavia, si apre una nuova fase, segnata dalle due mostre postimpressioniste organizzate da Roger Fry, rispettivamente nel 1910 e nel 1912, che produssero un riallineamento tra la pittura inglese e quella moderna francese. Fry e Sickert erano amici, ma le loro idee erano agli antipodi: Fry era convinto che la pittura dovesse risolversi tutta nell’organizzazione compositiva e formale mentre Sickert era avido di storie. Sentiva di essere un «pittore letterario» e così disse una volta a Virginia Woolf che su questo spunto scrisse nel 1934 Walter Sickert. A Conversation, dove sosteneva le ragioni dell’artista contro il formalismo dei bloomsburiani Fry e Clive Bell.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Sickert si ritrovò quindi da solo. Nei trent’anni successivi i capolavori si scalano con minore frequenza che in passato, ma ci sono ancora: Brighton Pierrots (1914) è un quadro di guerra, dove un gruppo di attori si esibisce in una luce acida, di fronte a una platea semivuota. Due autoritratti «biblici» della fine degli anni venti (Lazarus Breaks His Fast e The Servant of Abraham) presentano il dandy di una volta come un vecchio dalla barba non curata e lo sguardo annebbiato. Ed eccoci tornati, infine, al Thomas Beecham Conducting (1934), che, con il viso spettrale e la bacchetta in mano, anticipa di una quindicina d’anni i ritratti maschili di Bacon.
Alla fine di una mostra così ricca, cosa avrà avuto da ridire il gentiluomo in bombetta incontrato alla Tate? Forse l’andamento per temi nuoce un po’ alle opere e, in certi casi, la ripetizione dei motivi può risultare monotona. Eppure, nella sala degli autoritratti la scelta si rivela vincente, perché lì l’artista appare dotato di una potenza quasi shakespeariana nell’impersonare caratteri tanto diversi: l’uomo in crisi del 1896, l’insolente attor giovane di The Juvenile Lead, il vecchio Lazzaro che, dopo il digiuno, cerca di tornare a vivere…
In quella stanza, anche il più malmostoso dei fantasmi poteva sentirsi fiero di sé stesso.