Fin dove ci si può spingere per essere finalmente riconosciuti e amati? È la domanda che consegna Sick of Myself, opera seconda del regista norvegese Kristoffer Borgli, divenuto più noto per il suo film successivo Dream Scenario con protagonista Nicolas Cage e prodotto dalla statunitense A24. Un’affermazione legata proprio al successo di Sick of Myself, realizzato invece in Norvegia e divenuto un manifesto della vacuità che abita la nostra era e nello specifico dei meccanismi che permettono di capitalizzare visibilità sui social network, anche grazie a un ipocrita feticismo della diversità. Dopo la presentazione a Cannes e la distribuzione in sala dello scorso autunno, il film è arrivato su Mubi a partire dal primo gennaio.

Signe (Kristine Kujath Thorp) è una giovane donna con un enorme vuoto: vorrebbe essere glamour e desiderata e invece lavora in un bar – fatto che di per sé non pregiudicherebbe certo la felicità e l’autostima, il problema è l’interpretazione che se ne dà rispetto a determinate aspettative. È questa la trappola che imprigiona Signe, ma il discorso per estensione vale come riflessione sui millennials e la successiva generazione Z (in un arco temporale che va dai nati negli anni ’80 fino ai teenager di oggi). Le promesse infrante da un sistema economico che non permette certo l’affermazione di tutti, ma anche la profonda fragilità legata a una povera conoscenza di sé e a un’incapacità di apprezzare la vita nei suoi piaceri semplici sono alcuni degli elementi in gioco in questa vicenda il cui svolgimento può ricordare quello delle tragiche «sfide social» che abbiamo conosciuto negli ultimi mesi – tra cui la più macroscopica, quella degli Youtuber TheBorderline e dello schianto che causò la morte di un bambino a Roma.

IL GESTO ESTREMO di Signe è legato al suo stesso corpo: la giovane decide infatti di assumere un farmaco illegale consapevole del fatto che la sfigurerà. Il tentativo è anche quello di guadagnare un po’ di terreno sul suo fidanzato, artista narcisista concentrato sulla sua scalata al successo.
Durante il film assistiamo alla trasformazione di Signe – rendendo Sick of Myself anche un esempio di body horror – e alla sua paradossale affermazione proprio in quanto «diversa» e «vittima» di una presunta malattia. Se la «normalità» è ciò che appare insopportabile è perché manca un’identità capace di riconoscersi al di fuori della propria degradazione – un meccanismo non certo nuovo, ma in qualche modo nuova è la validazione da parte della società, sempre in cerca della next big sensation. Tuttavia, si tratta giusto di 15 minuti di celebrità, e i sogni di grandezza di Signe si infrangeranno sugli incontrollabili effetti della scelta e sulle sue stesse bugie.