I secoli che siamo soliti indicare come «medievali» sono stati dei potenti creatori di miti, ma allo stesso tempo hanno ripreso, rielaborandoli, miti del mondo classico. Alla prima categoria, quella dei miti prettamente medievali, appartiene certamente Federico II di Svevia, che dominò la scena politica europea nella prima metà del Duecento, sebbene scontrandosi continuamente con aristocrazie riottose, comuni ribelli e pontefici pronti a scomunicarlo a ogni occasione. Dai presunti misteri di Castel del Monte alla rappresentazione di un Federico «filomusulmano», l’immaginario dei posteri ha avuto di che spaziare, al pari della storiografia, che ne ha interpretato il personaggio come primo regnante proteso verso la modernità, un’idea negli ultimi decenni rivista profondamente in senso opposto.

AL DI LÀ delle interpretazioni totalizzanti della sua figura, che sono sempre impervie, è difficile negarne l’importanza sotto il profilo della promozione della cultura. Un tema sul quale torna Fulvio Delle Donne in La porta del sapere. Cultura alla corte di Federico II di Svevia (Carocci, pp. 270, euro 25), un agile manuale che fa il punto complessivo sul ruolo dell’imperatore nella scena culturale del Duecento e oltre.
La Magna Curia di Federico II fu un centro d’irradiazione di novità e di sperimentazioni culturali. Tra esse, un ruolo speciale deve essere assegnato alla scuola poetica che vi sorse: la tradizione francese vi venne fusa con influenze provenienti da varie culture, soprattutto quelle greca e araba, e dette vita a un modo di poetare nuovo che si espresse in un linguaggio aulico e purissimo, un siciliano di qualità elevata. Oltre che poetici, gli interessi di Federico furono altresì scientifici e filosofici. Alla sua corte convennero studiosi tra i più notevoli del tempo, come il filosofo e astrologo Michele Scoto che tradusse alcune opere di Aristotele; Teodoro d’Antiochia, un arabo cristiano monofisita; Juda ben Salomon Cohen, grande enciclopedista ebreo. Si deve soprattutto a Scoto – scozzese d’origine, toledano per tirocinio – se la Sicilia sveva divenne un luogo d’elezione per lo studio d’un pensiero aristotelico filtrato principalmente attraverso Avicenna e Averroè. Egli era tuttavia soprattutto interessato all’astrologia e a due scienze ad essa per molti versi affini, l’alchimia e la fisiognomica, per le quali si serviva di testi tradotti dall’arabo. Teodoro, invece, lavorava nella cancelleria redigendo la corrispondenza in arabo diretta alle corti musulmane (Federico stesso conosceva la lingua araba); inoltre, egli si occupava di testi di medicina e d’igiene e pare traducesse per l’imperatore un celebre trattato arabo di falconeria.

Federico, molto appassionato di tale arte, se n’era occupato durante la crociata: e fu grazie alle opere tradotte o volgarizzate da Michele e da Teodoro, oltre che alla sua esperienza di cacciatore e d’allevatore che poté redigere il suo celebre trattato di allevamento degli uccelli da caccia e di falconeria, il De arte venandi cum avibus, nel quale immise il frutto della sua straordinaria capacità di osservazione.
Non pago, tuttavia, dei dotti che egli aveva riunito attorno a sé nella Magna Curia e di quelli che vivevano altrove nel regno – come nel nuovo centro universitario di Napoli o nell’antica scuola medica di Salerno -, Federico si fece promotore di una serie d’inchieste sugli argomenti scientifici più varî che coinvolsero l’intero bacino mediterraneo: se ne ha una mirabile testimonianza nel codice del Kitab al-masa’il as-siqilliyya («Libro delle questioni siciliane») redatto da Ibn Sab’ìn, andaluso di Murcia, mistico sufi, al quale il suo sovrano – l’emiro almohade Abd al-Wahid – aveva passato una serie di questioni che l’imperatore aveva inviato in tutti i principali paesi dell’Islam mediterraneo e vicino-orientale, sollecitando risposta.

LA SICILIA MEDIEVALE era stata d’altronde da sempre una terra depositaria di miti, come quelli che circolavano intorno all’Etna, immaginato come un Aldilà nel quale riposano alcuni grandi re e imperatori. Se l’immaginario dei secoli bassomedievali è meglio conosciuto, quello dell’epoca precedente lo è molto meno: colma il vuoto il volume di Emanuele Piazza, Tra l’Etna e Cariddi. La Sicilia nell’immaginario altomedievale (Adda Editore, pp.164, euro 20). Nell’Etna finisce per esempio Teodorico, il grande re degli Ostrogoti, secondo la leggenda «antibarbarica» tessuta da Gregorio Magno; ma gli scritti degli autori che operarono tra Tardo Antico e Alto Medioevo mostrano anche una rielaborazione di miti antichi, come quello di Scilla e Cariddi. Spaventosi esseri mostruosi, magari ripresi, come già leggiamo in sant’Agostino, per significare i pericoli corsi da coloro che sposano l’eresia, oppure quali rappresentazioni dei vizi.

L’IMMAGINARIO medievale viveva spesso di simboli. Quello per eccellenza è dato dalla figura del conquistatore Alessandro Magno: soprattutto in un’epoca che conosceva il mondo extraeuropeo (almeno fino al pieno Duecento, quando diplomatici e marcanti presero a viaggiarvi sul serio) attraverso la lente fuorviante della geografia classica, ci si interrogava sulle meraviglie dell’Asia, e dunque il fondatore di un impero sconfinato per quanto effimero non poteva che suscitare interesse e dar vita a interpretazioni. Anche in virtù della morte all’apice del successo, che lo proiettava immediatamente al di sopra di tutti gli altri personaggi della storia, il mito di Alessandro Magno rivive, infatti, in una quantità di opere medievali.

FRA QUESTE, l’Alessandreide di Gualtiero di Châtillon, opera del XII secolo che conobbe un enorme successo, finora disponibile in edizione critica, ma non in traduzione italiana. Colma questo vuoto Lorenzo Bernardinello (Gualtiero di Châtillon, Alessandreide, Pacini Editore, pp. 368, euro 20), che ne ripropone il testo latino, ma con la traduzione a fronte e un ricco apparato di note esplicative. L’introduzione completa l’ottimo lavoro ambientando il testo, assai ammirato e conosciuto dai posteri, nel XII secolo, uno dei più ricchi nella storia della cultura europea.