L’ondata di calore intenso, con temperature superiori anche di quasi dieci gradi rispetto alla media stagionale, che colpisce l’Italia in questi giorni attraverso l’anticiclone africano – che i meteorologi prevedono sarà soppiantato a Nord dalla prossima settimana da perturbazioni atlantiche anche di carattere temporalesco – è solo uno degli eventi estremi dovuti al riscaldamento climatico a livello globale. In Germania, dopo un caldo afoso, le tempeste provenienti dal Baltico nei giorni scorsi hanno portato alberi abbattuti e due morti. In California è stata una settimana rovente, nella Death Valley è stata raggiunta la temperatura record di 53 gradi Celsius.

Lo stesso si può dire della perdurante siccità che sta mettendo in ginocchio gli agricoltori italiani, dopo un calo delle precipitazioni notevole durante l’inverno e la primavera appena trascorsi che ha portato in secca fiumi come il Po (un record, meno 65% della portata rispetto alla media stagionale), ma anche una sensibile diminuzione delle acque di altri fiumi, dighe e laghi . Tutti fenomeni largamente annunciati come più che probabili, ai quali dovrebbe corrispondere un sistema di allerta precoce e un piano a lungo termine di adattamento alle nuove condizioni climatiche estreme in base all’Accordo di Parigi.

Michele Vurro dirige il reparto sperimentale dell’istituto di ricerca sulle acque (Irsa-Cnr) a Bari e ha coordinato nel 2013 il progetto Circe (acronimo di climate change and impact research) con l’obiettivo di far dialogare i progetti sull’impatto del cambiamento climatico nel bacino del Mediterraneo.

Ingegnere, l’Italia non è anche uno dei paesi europei con maggiori riserve di acqua, sarebbe in grado di sopperire a emergenze come questa?

Le riserve di acqua ci sono, ed è giusto guardare al di là della siccità meterologica a quella, diciamo così, idrogeologica. Il nocciolo del problema resta quello della disponibilità idrica, che nella nostra situazione non solo tende a ridursi a causa delle diminuite precipitazioni ma anche a causa della loro diversa distribuzione, che porta a ridurre l’opportunità di quantità di acqua stoccata nei bacini naturali e artificiali.

In termini più semplici?

Mi spiego con un esempio. In Puglia la media annua di pioggia è di 600 millimetri, se questa stessa quantità viene spalmata in modo uniforme nei 12 mesi oppure se si concentra in pochi fenomeni di forte intensità, dove per intensità si intende la velocità per unità di tempo, il sistema idrogeologico risponde in modo molto diverso, perché il suolo e le rocce permeabili hanno bisogno di tempo per infiltrare l’acqua nelle falde profonde . Ciò che si sta osservando è proprio questo: pochi eventi burrascosi, violenti, portano grosse quantità di acqua e questa nuova distribuzione rende il sistema molto più vulnerabile di qualche decennio fa. Gli alvei e le dighe s’ingrossano di acque superficiali e la protezione civile deve decidere se procedere a scolmarli per evitare rischi di esondazione, in ogni caso ne è più difficile lo stoccaggio. Problema ancor più grave, quello delle precipitazioni nevose, che quest’inverno sono state particolarmente povere a Nord, sulle Alpi, e più vicine a valori non molto inferiori alla media sugli Appennini. Le nevi sono essenziali per lo stoccaggio perché hanno una intensità più bassa di infiltrazione, si sciolgono cioè con lentezza e regolarità.

Come arginare il problema?

È dal 2000 che con l’Unione europea e partner come il Marocco e la Tunisia lavoriamo a progetti sullo stress idrico. Una misura che consigliamo è creare piccoli serbatoi artificiali a lento rilascio, per infiltrare le falde acquifere. Ma l’approccio per una gestione ottimale delle risorse deve essere integrato: sotto l’aspetto tecnico, creando infrastrutture, sotto l’aspetto istituzionale, favorendo ad esempio la riduzione degli sprechi, e la gestione integrata con le autorità di distretto che ora fortunatamente uniscono livello nazionale e locale, e sotto l’aspetto culturale, favorendo il coinvolgimento di tutti gli attori della società nel corretto uso della risorsa, potenziando il riutilizzo e il risparmio d’acqua. Non è una sola misura che può risolvere la situazione.

Esiste un piano nazionale per aumentare la resilienza come vorrebbe l’accordo di Parigi?

Lo Stato italiano deve avere un piano. Ho contribuito con alcuni colleghi a predisporre la parte relativa alle risorse idriche evidenziando le misure d’intervento. Il nostro lavoro è stato consegnato a fine 2015. Poi è chiaro, ci sono i tempi necessari all’implementazione… Comunque in Italia, dall’alluvione di Firenze in poi, siamo stati i primi a capire quanto sia essenziale avere una visione di tutti gli elementi che concorrono a causare un fenomeno calamitoso, incluso i tempi di semina delle colture.

L’agricoltura è ancora il cuore del problema idrico?

Una buona gestione del suolo, ben coltivato, mantenuto in buono stato, con una agricoltura che ad esempio privilegi l’irrigazione a goccia, aumenta la resilienza del territorio. L’approccio, ripeto, non deve perdere di vista tutti gli aspetti.

errata corrige

Nell’edizione del manifesto in edicola il 25 giugno 2017, il nome dell’intervistato è stato pubblicato per uno spiacevole refuso come Michele Vucco e non, come è, Michele Vurro. Ce ne scusiamo con lui e con i lettori.