Gli studi sulla psicologia dei consumi alimentari si collocano a cavallo di due ambiti disciplinari; uno ha come obiettivo la promozione della salute e la modificazione dei comportamenti al fine di conseguire un’alimentazione più corretta, e a questo fine va alla ricerca dei fattori individuali come le emozioni, i processi decisionali, i valori e la cultura di appartenenza e relazionali, come l’influenza dei gruppi di pari, dei membri della famiglia e educazione, che impattano sulla scelta degli alimenti; un secondo è invece costituito da studi motivazionali, è più centrato sulle condotte di acquisto dei prodotti, sta alla base delle campagne pubblicitarie ed è funzionale al campo del business. Di fatto i primi studi di ricerca di mercato per la pubblicità partono nel settore alimentare.

L’EngageMinds Hub, centro di ricerca dell’Università Cattolica con sede a Cremona si occupa di entrambi questi aspetti, con una divisione dedicata ai malati cronici per andare a capire come i comportamenti di consumo alimentare possono incidere sulle condizioni cliniche, e una divisione, più recente, puramente legata all’innovazione agroalimentare che si pone il tema dell’accettazione da parte dei consumatori di nuovi prodotti alimentari, facendo da ponte fra la ricerca scientifica che cerca soluzioni a questioni come il cambiamento climatico, la denutrizione, le patologie e le preoccupazioni e diffidenze dei consumatori verso il cambiamento delle proprie abitudini alimentari. La direttrice del centro di ricerca Guendalina Graffigna sarà presente al Food and Science Festival che si svolgerà a Mantova dal 17 al 19 maggio con un incontro dal titolo «So quel che vuoi», in cui si esploreranno i processi mentali che sottendono ai consumi alimentari

Dottoressa Graffigna, il titolo dell’incontro presuppone la possibilità di conoscere a priori le scelte alimentari di una persona: quali sono gli indicatori e i criteri con cui si può impostare una previsione?
Si tratta chiaramente di un titolo ambizioso che sottende il fatto che a di là del dichiarato e dei criteri di scelta razionali che una persona può elencare, ci sono degli aspetti motivazionali ed emotivi profondi che riguardano la nostra irrazionalità e che spesso sono più facilmente influenzabili dal contesto: la pubblicità, il confezionamento e la presentazione di un prodotto possono determinare delle scelte meno razionali di quello che vorremmo, fattori «di pancia» che giocano un ruolo preponderante nelle nostre scelte alimentari. L’essere umano lavora per scorciatoie di pensiero più che per algoritmi.

Per esempio?
Le nostre esperienze pregresse determinano delle scelte, per esempio nella valutazione della probabilità che un ingrediente sia piacevole o non piacevole o possa farci male o non male. Un altro esempio è quello delle etichette. Abbiamo fatto degli studi sulle etichette «senza», ovvero quelle che segnalano l’assenza di un determinato ingrediente (senza glutine, senza grassi idrogenati, senza olio di palma… etc.). Abbiamo dimostrato come questa indicazione sul fronte pacco determini una valutazione di maggiore salubrità o qualità del prodotto rispetto a quello convenzionale, anche se il «senza» è relativo a un ingrediente che comunque non c’è o è inventato; lo stesso avviene, paradossalmente, se il «senza» è relativo a un ingrediente che non nuoce alla salute, anzi, come i grassi polinsaturi, molecole che vengono fraintese e valutate negativamente. Quindi siamo una società in cui si pensa che se un ingrediente viene tolto è perché fa male a 360 gradi, ma questo non è vero e soprattutto questo atteggiamento si presta a delle operazioni di marketing un po’ spregiudicate e ingannevoli, anche se rimangono nella legalità: troviamo sugli scaffali una bibita gassata indicata sull’etichetta come «gluten free» quando lo era anche prima, ma quell’indicazione attrae maggiormente l’attenzione del consumatore.

Sulla base dei vostri studi e monitoraggi quali tendenze emergono nelle scelte alimentari e quali sono le maggiori preoccupazioni ?
Abbiamo notato una maggiore attenzione verso la sostenibilità da parte dei consumatori che tendono a boicottare aziende ritenute poco affidabili, anche se spesso in assenza di una effettiva conoscenza di cosa voglia dire sostenibilità. Comportamenti quali la riduzione degli sprechi, il riciclo, la scelta di prodotti con etichettatura sostenibile sono condotte sempre più in crescita nel target giovanile e nelle donne, ma è interessante notare come si stiano facendo strada anche nella popolazione matura che in studi precedenti era risultata più tradizionale. Allo stesso tempo questi consumatori dichiarano di non riuscire ad essere sostenibili quanto vorrebbero per questioni economiche o distributive; quindi, questa maggiore attenzione rimane su un piano più astratto che concreto: per essere sostenibili bisogna avere risorse economiche e tempo e non ci si sente sostenuti dal contesto. Essere sostenibili dipende da uno sforzo individuale.

Le tecnologie alimentari sviluppano cibi sempre più mirati e sostenibili. Possiamo affermare che mangiamo meglio che in passato?
C’è ancora un largo consumo di cibo poco salutare, sia per una questione economica che psicologica (i cibi che ci gratificano). Coloro che sono sempre più attenti all’alimentazione sono la punta dell’iceberg, in realtà ci sono molte sacche di popolazione che mangiano sempre peggio, e a dimostrarlo sono l’incidenza dell’obesità e di altre patologie, purtroppo molto diffuse anche nei giovani. Nonostante alcune tematiche come la sostenibilità e il cambiamento climatico siano molto importanti, nelle nuove generazioni si sta perdendo la cultura di una buona alimentazione. I giovani sono rappresentativi di un paradosso: grande attenzione ad alcuni microaspetti ma mancanza di una dieta bilanciata. Il fatto di demonizzare alcuni specifici ingredienti è uno dei sintomi di questa schizofrenia del consumatore, che si focalizza sul dettaglio ma non ha una visione d’insieme.

L’alimentazione peggiora anche a causa della industrializzazione della produzione?
In realtà i prodotti industriali sono sempre più avanzati e controllati. Il problema non sta nel prodotto in sé ma nello stile di vita e in come è strutturato il lavoro e la famiglia. Le persone da una parte sono più sensibili al tema ma manca una base educativa che prima ci veniva data dalle nostre mamme e nonne. Ora abbiamo poco tempo, mangiamo spesso fuori e rispondiamo al nostro desiderio di cibo sano cercando informazioni per conto nostro e allora siamo preda del marketing e della frammentazione dell’informazione: occorre fare sintesi ma questa funzione richiede un’educazione che non stiamo più ricevendo. Sociologicamente siamo in una fase di transizione in cui da una parte non c’è più la trasmissione familiare, dall’altra non c’è un contesto educativo sanitario che si fa carico di fornire una cultura dell’alimentazione. Quindi rimaniamo un po’ allo sbando, per questo motivo l’introduzione dell’educazione alimentare a scuola è fondamentale.