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Siamo arrivati a una sorta di ground zero

Siamo arrivati a una sorta di ground zeroOdilon Redon, «Le Cyclope», museo Kröller-Müller

Decreto Coronavirus In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui precipitano e si rivelano tutte le linee di crisi del nostro tempo

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 11 marzo 2020

Alla velocità della luce siamo arrivati a una sorta di ground zero. La decisione del governo di trasformare l’intero Paese in un’unica, grande «zona rossa» – di arrestare così la vita sociale ed economica per salvare la vita biologica – ne è l’emblema.

Nell’arco di meno di una settimana il mondo consueto in cui vivevamo si è rovesciato, e siamo regrediti, d’un balzo, a un grado zero non solo dell’attività – dei movimenti, del lavoro, della produttività – ma della relazionalità. E anche, vogliamo dirlo? della civiltà. È quanto accade quando repentinamente la politica si rivela come bio-politica. E più che le regole umanizzate della Polis valgono quelle elementari della sopravvivenza, del Bios.

IL FATTO CHE il provvedimento preso appaia al tempo stesso terribile e ragionevole – un ossimoro – ci dice quanto a fondo in effetti il male sia arrivato a toccarci «nell’osso e nella carne» (per usare le parole che nel libro di Giobbe il satana rivolge a dio), polverizzando d’un colpo ogni nostra consolidata abitudine. Ogni precedente «pensato» orientato alla convivenza civile in un «sistema sociale», travolto dalle nuove – pre-umane, dis-umane – regole dei «sistemi viventi».

Il documento pubblicato pochi giorni fa (il 6 marzo) dalla Società degli anestesisti e rianimatori col titolo di per sé inquietante, «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili», è da questo punto di vista esemplare. I medici impegnati in prima linea ci dicono, in poche parole, che «può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva».

IN PRESENZA di un afflusso superiore alle possibilità di ricovero la selezione tra chi salvare e chi no avverrà con criteri anagrafici e biologici, anziché in base al puro (e casuale) ordine di arrivo (first come, first served). «Non si tratta di compiere scelte meramente di valore – precisano – ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone». Lo mettono nero su bianco per venire in soccorso alla disperazione etica di chi, sul terreno, è chiamato a scegliere tra «sommersi e salvati». Per non farlo sentire solo di fronte a una responsabilità «dis-umana». E lo fanno evocando l’«etica delle catastrofi» e, appunto, principii da stato d’eccezione, consapevoli degli scenari d’altri tempi che quel pensato fino a ieri impensabile può evocare (per la mia generazione è inevitabile rivedere sullo sfondo del nostro triage la rampa di Auschwitz dove avveniva appunto l’erste Auswahl, l’orrenda «prima selezione» in base alle condizioni fisiche e anagrafiche dei nuovi arrivati per «decidere» se mandarli ai forni o al lavoro). Per tutte queste ragioni quello resta un documento umanissimo e disumano insieme. Agghiacciante (per le sue implicazioni ultime) e comprensibile, per le sue ragioni immediate. Per la terribile «forza delle cose» che lo muove.

È l’applicazione di un’impietosa «razionalità strumentale» (quella che impone di massimizzare i risultati con le risorse disponibili) a una realtà che riduce la pietà a un lusso che non ci si può (più) permettere. Merita – voglio sottolinearlo – il massimo rispetto, per le caratteristiche di chi l’ha redatto e di coloro cui è diretto: le persone che per professione operano in prima linea, quotidianamente, con rischio, sul fronte estremo della vita e della morte. Su di loro ogni giudizio critico sarebbe ingiusto.

SE UN’OSSERVAZIONE mi permetterei di fare, invece, non è tanto su quanto il documento dice, ma su quanto non dice. In esso lo «squilibrio tra necessità e risorse disponibili» è dato come un presupposto di fatto. Una sorta di dato di natura, come il virus in fondo. Così però non è. Se i posti in rianimazione sono scarsi, è perché qualcuno (decisori pubblici, politici di governo, poteri economici nazionali e internazionali, opinion leaders, operatori dell’informazione) ha deciso così per anni. Se in Italia ne abbiamo 5.000 di contro ai 28.000 della Germania e agli oltre 20.000 della Francia, è in conseguenza di scelte: quelle che hanno portato in dieci anni a negare 35 miliardi dovuti alla Sanità e a tagliare 70.000 posti letto. Se i nostri rianimatori sono costretti ad affrontare «dilemmi mortali» è perché altri, sopra di loro, o intorno a loro, hanno determinato la scarsità che obbliga e rende feroce la selezione. Questo dovrebbe concludere un’osservazione razionale che si sollevasse al di sopra del campo «professionale» e giudicasse con uno sguardo «generale» o, appunto, «generalmente umano». In questa luce anche il virus probabilmente si «umanizzerebbe». Non nel senso di diventare meno feroce. Ma di rivelare quella specifica ferocia tipica di noi «ultimi uomini». Di offrire davvero, come aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di una condizione umana e sociale. In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i «vecchi», in primis) e meritevoli i vincenti?

L’ISOLAMENTO cui ci obbliga, la rottura dei legami che impone come autodifesa, non è il programma thatcheriano della cancellazione della società in nome dell’individualismo estremo fatto codice genetico? Lo stesso crollo dei mercati finanziari sotto l’urto del morbo e della paura, non è il segno di quella fragilità strutturale del finanz-capitalismo a suo tempo denunciata dai pochi «gufi»? In medio stat virus, vien da dire. Nel senso che è quello il microscopico luogo geometrico in cui precipitano e si rivelano tutte le linee di crisi del nostro tempo.

Quando tutto questo sarà finito, dovremo ben ripensare l’intero nostro universo di senso, a cominciare dall’insostenibilità del dispositivo egemonico che sembrava fino a ieri immortale. E per farlo servirà anche a noi un cambiamento, radicale, di sguardo, linguaggio, categorie e progetto.

 

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