Come l’umanità si alimenta ha un impatto determinante nella crisi di stabilità e resilienza del pianeta, oggi quasi irreversibile. Lo spreco alimentare è una disfunzionalità dei sistemi dominanti che Giulio Vulcano studia da più di tre anni con un indispensabile approccio sistemico, a partire da una definizione più ampia di quella che comunemente conosciamo.

Quali sono gli elementi dello spreco alimentare e quali incidono maggiormente nel mondo?

Considerando tutto il funzionamento del sistema alimentare e non solo i rifiuti lungo le filiere, lo spreco globale è di almeno il 50% della produzione iniziale. La componente maggiore è di certo quella delle perdite nette associate alla produzione animale, specie se intensiva. Si tratta del cibo (cereali, semi oleaginosi) che accresce gli allevamenti e di cui si perde circa il 70% delle calorie per produrre carne e altro.

Il consumo eccessivo di derivati animali può generare insicurezza alimentare dove sono prelevate le risorse e problemi ambientali in ogni fase, così come malnutrizione e obesità. Altra forma trascurata di spreco è infatti la sovralimentazione (soprattutto di alimenti iperprocessati a base di carboidrati, zuccheri e sale) oltre i fabbisogni raccomandati, considerata una pandemia globale in enorme espansione (circa 2 miliardi di persone; l’Italia ha il primato europeo di adolescenti obesi). Della produzione mondiale circa il 25% si perde negli allevamenti ed è una tendenza in aumento come per i rifiuti creati tra le fasi di produzione e offerta (8%), mentre sono in diminuzione i rifiuti tra la distribuzione e il consumo (6%); quasi altrettanto si perde in sovralimentazione; ci sono poi altre componenti come il 13% per usi non alimentari (biocombustibili). Da solo questo spreco sistemico impegna più di un terzo di tutta la capacità socio-ecologica del pianeta di assorbire i rifiuti e rigenerare le risorse. In Italia l’impronta arriva al 50% perché vengono impiegate anche risorse sottratte ad altri territori.

La sua ricerca evidenzia come l’approccio utilizzato principalmente per affrontare gli sprechi, quello della riduzione dei rifiuti, non solo non risulta efficace ma può essere addirittura rischiosa. Perché?

Entro certi limiti, recupero e riciclo delle eccedenze sono importanti per rendere più ciclica la bioeconomia, tamponare emergenze alimentari ed evitare problemi di smaltimento dei rifiuti. Ma focalizzarsi prevalentemente sulle fasi terminali crea il paradosso di giustificare e consolidare l’aumento della sovraproduzione. Nel sistema alimentare si verificano effetti complessi di retroazione ed entropia. Il recupero e il riciclo degli scarti in ogni fase rende il sistema industriale più efficiente e facilita la sua tendenza all’espansione. Si crea quindi un effetto di rimbalzo con l’aumento del consumo totale di risorse richieste all’origine per sostenere i nuovi processi e la creazione di nuove scorie. Così si alimenta un metabolismo sempre più ipertrofico, dissipativo e malato. Questo approccio diminuisce il senso di responsabilità individuale e crea forme di dipendenza e debito morale piuttosto che favorire lo sviluppo di capacità autonome. C’è anche il rischio che così si copra e ritardi lo sviluppo delle reti alimentari virtuose che prevengono lo spreco.

Pensando alle norme attuali, quali potrebbero essere degli interventi che favoriscano la prevenzione dello spreco nello specifico dell’Italia?

È necessario lo sviluppo di politiche alimentari anche legislative che integrino aspetti connessi, ma che solitamente vengono affrontati distintamente, con al centro una visione di sostenibilità forte, per cambiare i modelli di produzione, distribuzione e consumo: parsimonia, equilibrio e prosperità sono fari oltre il paradigma della crescita fine a sé stessa. L’obiettivo strategico dovrebbe essere un grado minimo di autosufficienza alimentare, su base locale, agroecologica, di piccola scala, solidale, con livelli fisiologici di fabbisogni ed eccedenze da riusare in processi quasi-circolari.A livello statale si dovrebbe creare il contesto per la diffusione e il coordinamento di politiche locali inclusive e partecipate. Gli ambiti di intervento sono molti: riconoscimento del cibo come bene comune, non mercificato e spettacolarizzato, garantendovi accesso per tutti, con retribuzioni eque per i produttori; educazione alimentare e incentivi a diete più sane e sostenibili; orientamento degli acquisti pubblici; valorizzazione dell’agrobiodiversità e dell’agricoltura contadina; arresto del consumo di suolo agricolo e naturale; accesso alla terra che avvicini produzione e consumo (agricoltura urbana e in aree interne); favorire la creazione di ambienti abilitanti per coinvolgere i cittadini nelle reti di economia sociale e solidale, risolvendo i vincoli che le limitano; promuovere la ricerca sulle capacità socio-ecologiche dei territori. Nel mio studio, disponibile su researchgate.net, anche in versione integrale, sono descritti ampiamente tanti esempi di queste misure.