La crisi tra Anp e Hamas a Gaza si è aggravata ieri mentre in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, come non accadeva da anni, i palestinesi in appoggio al digiuno di protesta di oltre 1500 detenuti nelle carceri israeliane, osservavano uno sciopero generale che ha ricevuto una adesione massiccia. Nelle stesse ore i media locali riferivano che Donald Trump sarà in Israele il 22 maggio, durante le celebrazioni che lo Stato ebraico sta organizzando per i 50 anni della Guerra dei sei giorni e della “riunificazione” di Gerusalemme, ovvero dell’occupazione della zona araba (Est) della città. Trump arriverà assieme alla figlia Ivanka, al genero e consigliere speciale Jason Kushner, al segretatio di stato Tillerson e alla ambasciatrice all’Onu Nikki Haley. Si sussurra che Trump quel giorno potrebbe presentare il suo “piano di pace”. Non è chiaro se la visita includerà anche l’annuncio tanto atteso dal governo Netanyahu, e temuto dai palestinesi, del trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, in modo da riconoscere tutta la città capitale di Israele. A metà maggio è previsto l’arrivo in Israele del nuovo ambasciatore Usa, David Friedman, noto per le sue accese simpatie per la destra israeliana e donatore generoso al movimento dei coloni.

E forse con in mente proprio l’incontro che avrà con Trump il 3 maggio alla Casa Bianca, dove vorrebbe presentarsi come un leader “forte”, che il presidente palestinese Abu Mazen ieri ha deciso che il governo dell’Anp a Ramallah non pagherà più il costo dell’energia elettrica che Israele fornisce alla Striscia di Gaza. Una decisione che ha innescato le proteste del movimento islamico Hamas, che dal 2007 mantiene il controllo esclusivo di Gaza perché si aggiunge al taglio del 30% dello stipendio degli ex dipendenti dell’Anp nella Striscia (circa 70mila persone) e al mancato pagamento del gasolio necessario per il funzionamento dell’unica centrale elettrica. Gaza è quasi senza elettricità e Abu Mazen crede che la popolazione, che già affronta grandi difficoltà quotidiane, non tarderà a far sentire la sua protesta contro Hamas, costringendolo a ridimensionare le sue condizioni per arrivare ad un accordo con l’Anp. Abu Mazen spiega che Hamas non può sperare di governare da solo Gaza senza pagare i costi che prevede il mantenimento della popolazione civile. Il numero due di Hamas, Khalil al Haya, esponente di punta dell’ala militare del movimento, ha avvertito che «Gaza è un barile che può esplodere in qualsiasi momento e in ogni direzione». Un deputato, Marwan Abu Ras, ha urlato che Abu Mazen «dovrebbe essere processato ed impiccato di fronte al popolo». Nei giorni scorsi, in dimostrazioni organizzate da Hamas i dimostranti avevano dato alle fiamme effigi del presidente palestinese.

Dall’esterno si potrebbe leggere questa nuova grave crisi come uno scontro ideologico tra un presidente moderato che vuole riprendere il controllo di Gaza e rilanciare il negoziato con Israele e un movimento radicale che al contrario crede che solo la resistenza armata realizzerà le aspirazioni palestinesi. Nulla di tutto ciò. È una lotta di potere tra chi vuole imporre di nuovo, ad ogni costo, la sua autorità su un lembo di terra che è una prigione a cielo aperto per due milioni di esseri umani e chi, ad ogni costo, non vuole rinunciare al controllo esclusivo di questo enorme carcere schiacciato tra Israele e l’Egitto che immagina come il primo emirato islamico in Palestina. Due poteri senza potere che per i loro appetiti non esitano a sacrificare l’interesse dei palestinesi di Gaza che chiedono l’unità nazionale, la fine del blocco israelo-egiziano e di essere liberi. Due milioni di persone che hanno subito tre devastanti operazioni militari israeliane tra il 2008 e il 2014 e che in questi giorni sono vittime della pericolosa prova di forza avviata da Abu Mazen e della “determinazione” di Hamas a non rinunciare alle sue condizioni.

Intanto ieri l’esercito israeliano ha rafforzato i suoi posti di blocco e postazioni intorno alle città palestinesi per la “giornata della rabbia” proclamata da Fatah. Si prevedono manifestazioni nei principali centri abitati a sostegno dello sciopero della fame dei prigionieri.