Alle cinque del pomeriggio i cellulari dei deputati Pd diventano radioattivi tutti insieme, all’improvviso. Il gruppo sta inviando i primi lanci di agenzia sulla sentenza della Consulta: cancellato il ballottaggio, restano i capilista bloccati e il premio di maggioranza alla lista che raggiunga il 40%. Fausto Raciti, giovane segretario siciliano e giovane turco, sorride scorrendo gli sms: «Per noi proporzionalisti così va bene». Anche per i coalizionisti però non va male: per raggiungere il 40 per cento la lista dovrà essere un «listone»: qualcuno parlava di «nuovo Ulivo»? Il Transatlantico fin lì mezzo vuoto in attesa di verdetto si trasforma in un autobus all’ora di punta. Facce renziane si illuminano di un buonumore che non si vede dal giorno della sberla referendaria. In capannelli separati, le facce della sinistra Pd si allungano. È il capogruppo Ettore Rosato a dare la linea: «Non c’è una bocciatura dell’Italicum», ripete, e giura che le leggi di camera e senato ora sono «omogenee» come ha chiesto il presidente Mattarella, «per noi bisogna andare al voto subito». Dario Parrini convince i cronisti: «Le due leggi sono già armonizzate, non lo erano prima quando erano maggioritario e proporzionale». Il vicesegretario Lorenzo Guerini, più realista, aggiunge qualche avverbio: la legge che esce dalla Consulta «è tendenzialmente omogenea e immediatamente applicabile. Siamo per il Mattarellum e siamo disponibili ad un confronto ma senza perdere tempo. Il Pd non ha paura del voto». Due metri più in là il bersaniano Nico Stumpo è scettico: «Stiamo ai fatti: abbiamo una legge in molte parti giudicata incostituzionale proprio come il Porcellum». Quanto all’«omogeneità», «da una parte c’è il premio dall’altra no, gli sbarramenti sono molto diversi. Diciamo la verità: andare al voto adesso è una scelta politica del Pd». Roberto Speranza chiede che il parlamento «si riappropri della potestà legislativa e approvi una nuova legge». Si scatena l’ironia dei renziani.

Dal Nazareno la «soddifazione» di Renzi rimbalza fino a Montecitorio. Il segretario prepara la sua «ripartenza» sin dalla mattina quando mette in rete un blog nuovo di zecca, benché stile vintage. Primo post: «Il futuro prima o poi ritorna. Ci sono molti modi di cominciare. E di ricominciare». Poi, con un messaggio su whatsapp ringrazia – e licenzia – la vecchia segreteria. Oggi sarà il giorno del nuovo team.

Ma nel pomeriggio la sentenza è il miglior assist che poteva desiderare, a patto di tralasciare che la Corte ha bastonato la legge che tutti dovevano copiare eccetera. I capilista bloccati gli danno la golden share per convincere Berlusconi che anche per lui il Legalicum è il massimo risultato possibile. Ma soprattutto Renzi ora può trattare da una posizione di forza con quelli che nel suo partito non vogliono andare a votare: prendere un drappello di capilista e rassegnarsi. Sono Dario Franceschini e Andrea Orlando. Per ora chiusi in un silenzio giustificato: il primo è in visita ufficiale a Londra, il secondo lima il suo discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, «delicatissimo», si spiega, per via della protesta dei magistrati. Ora i due e le loro truppe di «frenatori» in sintonia con gli intenti del Colle dovranno uscire allo scoperto. Dal Quirinale filtra il «riserbo» del presidente ma anche una sottolineatura che per ogni valutazione bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza alla luce delle quali andrà valutata la questione della omogeneità delle leggi.

Discorso diverso per i bersaniani. In lista per loro ci sarebbero ben pochi posti «garantiti». Bersani ripete il suo no al voto: «Bisogna guardarsi un attimo intorno. Abbiamo qualche problemino noi: abbiamo il problema delle banche; il problema del lavoro ed il referendum; il terremoto; abbiamo forse da fare una manovrina», dichiara al Fattoquotidiano.it. Ma al Nazareno Renzi ha già ingranato la marcia. Prepara la sua rentrée per il 28 a Rimi. L’impossibile voto l’11 giugno ora sembra possibile. «Mi bastano tre settimane per chiudere la legge elettorale», aveva detto alla vigilia della sentenza. Quanto a Bersani, per lui il Pd potrebbe fare una propostina a cui sarebbe dura dire di no: sacrificarsi per il partito, candidarsi a sindaco della sua Piacenza. E tanti saluti alla ditta.