La sera di venerdì tre aprile, come altri due milioni di spettatori, ho spento il televisore alle 21 e 15. Con la triste certezza che, per forza di cose, un ulteriore, piccolissimo tassello della mia vita attuale era venuto a mancare. Come gli altri due milioni di spettatori, anch’io, ieri sera, sono diventato orfano temporaneo di quella mezz’ora che da 23 anni, 5 mesi, 13 giorni e 5475 puntate rappresentava una piacevole abitudine, oggi sospesa dalle regole della lotta contro il Covid19.

Per 23 anni, 5 mesi, 13 giorni e 5475 puntate, se gli amici proponevano una cena, dicevo sì, ma dopo le 21 e 15; se qualcuno ‘osava’ telefonare a partire dalle 20 e 45, non rispondevo, o lo facevo durante il break pubblicitario; se ero in viaggio per lavoro, prima dell’avvento di Rai Play affidavo a persone intime il compito di aggiornarmi sul corso degli eventi. Agli inizi, lo confesso, nascondevo questa mia passione nel timore di venir deriso, o addirittura compatito. Poi, scoprendo in quanti eravamo e quanto crescevamo di numero, un giorno ormai lontano ho fatto outing: lo dichiaro con orgoglio, lo rivendico, grido al mondo, che sono un fan sfegatato di Upas, affettuoso acronimo della soap Un posto al sole.

Approfittando del mestiere, arrivai a fare ben di più. In occasione del decennale di Un posto, era il 2006, proposi ad «Alias» di raccontare ai nostri lettori del format australiano che Giovanni Minoli, con intuizione geniale, aveva trasportato a Napoli, aprendo un capitolo non secondario nella storia del costume televisivo italiano. Pubblicammo quattro pagine, e la risposta dei lettori superò ogni aspettativa, cancellò ogni timore. Ricevemmo attestazioni di stima, lettere di plauso e di ringraziamento, persino una lunga analisi di Upas da una prospettiva gramsciana.

In poco meno di un quarto di secolo, la soap più longeva della Rai, ma quant’è riduttivo definirla tale, non ha mai cambiato gli ingredienti che ne hanno decretato il successo. Primo fra tutti la contemporaneità. Le vicende degli inquilini di Palazzo Palladini, a Posillipo, si svolgono da sempre nel giorno della messa in onda. Prova ne danno i riferimenti a una partita di calcio che si giocherà la domenica di quella settimana; i preparativi per la festa del papà o della mamma, la Pasqua o il Natale; le citazioni di ricorrenze e commemorazioni civili. Secondo e fondamentale ingrediente l’estrema sensibilità nei confronti delle tematiche sociali, trattate in parallelo, o sovrapposte alle storie private dei vari protagonisti.

Una significativa percentuale delle 5475 puntate ha riguardato emarginazione, violenza femminile, adozioni, padri che rifiutano l’omosessualità del figlio, donne vittime delle truffe sentimentali via web, migranti ridotti in schiavitù, camorra… Episodio recente e bellissimo quello di Carla, transessuale che lotta per riconquistare l’amore delle giovanissime figlie e creare un nuovo rapporto con la ex moglie. Sono questi i pilastri su cui poggia una modalità narrativa che ha saputo conquistarsi un pubblico a dir poco variegato.

Fedelissimi di Upas sono gli abitanti del Rione Sanità, gli habitué della domenica pomeriggio di Rai Uno, i detenuti delle carceri, la signora Clio Napolitano, una nutrita schiera di manager ad alto livello; ne erano fedelissimi Margherita Hack e Vittorio Taviani. E c’è chi, tra i nomi famosi della cultura e dello spettacolo, ha accettato con entusiasmo di comparire in un cameo: Mauro Covacich, Carlo Lucarelli, Maurizio Di Giovanni, Amanda Lear, Eugenio Bennato, Peppino Di Capri, Luigi De Filippo, Pif, Michele Mirabella, Barbara Bouchet, Dario Vergassola, Mario Merola, Carlo Croccolo, Valeria Valeri… Tuttavia, nelle ultime settimane e man mano che l’incubo del Coronavirus prendeva corpo, Upas era andato perdendo il suo rapporto, la sua coincidenza, con la realtà vissuta dallo spettatore; aveva assunto i contorni di un mondo nel quale risultava difficile identificarsi.

Il 3 aprile, esaurita la riserva di puntate, la macchina si è fermata. Troppo alto il rischio di contagio sul set, comunque impossibile modificare i copioni già scritti per adattarli a ciò che l’Italia sta vivendo. La macchina si è fermata, e dunque orfani di Upas sono diventati anche i suoi artefici, a cominciare dalla prima linea: sceneggiatori, editor, dialoghisti, attori. Tornando virtualmente dietro le quinte dopo quattordici anni, abbiamo trascorso un pomeriggio a parlare con loro di un imprevisto che mai avrebbero pensato di dover affrontare, non solo sul piano professionale.

L’intervista

Paolo Terracciano, capo scrittura dal 2001, arriva all’appuntamento telefonico con un po’di ritardo, la coda al supermercato è stata più lunga del previsto.

Terracciano, pesa, nella quotidianità di ciascuno di voi, la mancanza di quella che era diventata una vera e propria vita parallela?

L’ultima settimana di lavorazione è stata molto stressante. Dovevamo scrivere le nuove puntate e nello stesso tempo adattare le scene che stavamo girando alle restrizioni imposte dall’epidemia.
Accanto a questo, la necessità di riorganizzare il proprio privato. Emergere dalla vita parallela mi ha fatto bene, perché restarci dentro risultava difficile rispetto alla prepotenza di quanto stava e sta accadendo. Sento però, forte, la mancanza dello scambio di energie e di idee».

Quando «Un posto» ricomincerà, la memoria di questi mesi troverà spazio, oppure sceglierete di accantonarla?

È una riflessione che abbiamo cominciato a fare negli ultimi giorni delle lavorazioni. Agli inizi proporremo, completandole, le puntate già in parte girate. Ci sarà, quindi, uno sfasamento temporale. Per quelle nuove entreremo in una sorta di limbo, aspettando, ad esempio, una ricorrenza, e così tornare alla coincidenza delle date. Quanto alla memoria del Corona Virus, sempre agli inizi toglieremo tutte le situazioni che potrebbero risultare stridenti. Ma poiché scriviamo con largo anticipo, non potremo certo azzardare ipotesi sul futuro. Magari più in là, una volta che tutto si sarà concluso, valuteremo come far entrare questa vicenda nelle nostre storie.

Se già le due settimane conclusive di «Upas» davano l’impressione di proporre una realtà lontanissima da quella attuale, non correrete analogo rischio alla ripresa della programmazione?

Credo, e vale anche per ciò che è andato in onda fino a ieri, che regalare al pubblico mezz’ora di leggerezza senza cadere nella superficialità, non sia mai una cattiva cosa. Raccontare la cronaca. la stretta attualità, è compito dei telegiornali.

Il cast

Dici Patrizio Rispo e vedi Raffaele, il custode giardiniere di Palazzo Palladini dispensatore di consigli, marito della dottoressa Ornella, padre di Viola e Patrizio, adoratore del Napoli, tessitore di scherzi ai danni del cognato Renato. Rispo, dalla prima puntata, incarna uno dei personaggi chiave di Un posto al sole. A lui dunque la precedenza di parola tra gli attori orfani delle loro esistenze parallele «Devo dirlo: una parte della mia vita si è rotta. In ventiquattro anni credo di aver dedicato più spazio a Raffaele che a Patrizio. Continuo a farlo mantenendo vivo, tramite i social, il mio/ suo rapporto con il pubblico».

Inadeguatezza nel guardare le ultime puntate, prive della narrazione di ciò sta accadendo. È la sensazione di Rispo a fronte dell’improvvisa estraneità di Upas «Sarei felice se dopo l’obbligata parentesi ‘antologica’ (dal 6 aprile andranno in onda le repliche della sedicesima stagione, ndr) affrontassimo ancora in corsa l’argomento della pandemia. La gente, da noi, si aspetta questo».

Fingiamo che Un posto al sole prosegua nonostante il Covid19. Che farebbe Raffaele? «Diventerebbe il Vincenzo De Luca di Palazzo Palladini». I fedelissimi hanno visto crescere alcuni protagonisti storici della fiction, arrivati sul set che erano bambini. Giorgia Gianetiempo, nata lo stesso anno di Upas, indossa dal 2001 i panni di Rossella, oggi studentessa di medicina, figlia di Silvia, la padrona del Bar Vulcano, e del giornalista Michele: «Ero abituata a fermarmi a Natale e in agosto. Doverlo fare per un’emergenza così negativa è davvero brutto. Abbiamo cercato di lavorare quando le restrizioni erano meno ferree, provavamo con la mascherina, a un metro di distanza, ma la tensione era troppo forte e abbiamo dovuto smettere». Hai visto le puntate recenti di Upas? «Sembravano appartenere a un mondo fantastico, dove tutti si abbracciano, escono, si incontrano, mentre noi ce ne stiamo barricati in casa».

Peppe Zarbo è Franco, marito di Angela, la figlia di Giulia e Renato. Radici proletarie, impulsivo, buon boxeur, ultimamente si è placato. Zarbo ha lasciato Roma per Londra, e su Boris Johnson preferisce sorvolare, mentre sulla mancanza della vita parallela è in controtendenza rispetto ai colleghi «Una pausa così lunga mi sta dando la possibilità di ripensare alcune cose di me stesso, smarrite nell’identificazione con Franco, che la routine lavorativa finisce per importi». Anche a Zarbo l’improvvisa stonatura di Upas è suonata strana «Era come assistere a delle repliche di qualcos’altro, a storie invecchiate di colpo…». Un posto al sole dopo la pandemia: «Dopo, ognuno di noi sarà diverso, e lo stesso varrà per la linea editoriale di Upas. Sarà impossibile far finta di niente, riprendere con un ‘Allora: dove eravamo rimasti?’».

Giulia, ex moglie di Renato, assistente sociale, gestisce insieme alla figlia Angela un Centro di ascolto. Dal 1996 è la vita numero due di Marina Tagliaferri, teatro con Albertazzi, Bene, Lavia, Squarzina, cinema con Francesca Archibugi: «Tutti noi, nei primi anni, ci siamo chiesti cosa significasse stare dentro Un posto al sole senza una scadenza temporale. E se questo, agli inizi, ci ha un po’destabilizzati, poi non ci siamo più fatti la domanda. Fino a oggi. Upas non si è fermato perché ha concluso il suo ciclo. Ma perché tutto si è fermato. E allora, impotenti e smarriti, possiamo soltanto aspettare, come gli altri». Lo stesso vale, afferma Tagliaferri, guardando al provvisorio scollamento dalla realtà: «Era un futuro totalmente impensabile, in grado di superare ogni narrazione, tanto più la nostra che il futuro gioca ad anticiparlo».

Tranquilla e rassicurante. Tale è Ornella, dottoressa in ospedale e degli inquilini del Palazzo. E tale, al telefono, è Marina Giulia Cavalli, Ornella da due decenni. Il distacco non le pesa: «Pur se a volte mi sento in una bolla, dove la nozione del tempo è cambiata. Mi capita di pensare ‘La prossima settimana arrivano i piani di lavoro”, e invece…».

Una tranquilla quotidianità, nei limiti della situazione e in assenza del suo alter ego televisivo, la trascorre anche Michelangelo Tommaso. Diciott’anni fa la sua comparsa in scena nel ruolo di Filippo, figlio del facoltoso imprenditore Roberto e attualmente consorte di Serena e in crisi matrimoniale. «Attori e non attori, tutti recitiamo un personaggio fuori casa. Al quale, noi di Upas, dobbiamo aggiungere il personaggio professionale. Per fortuna non ho mai avuto problemi a separare Filippo da me stesso; esiste un legame, ma i confini tra noi sono ben chiari». Se da un lato, le puntate delle tre settimane antecedenti allo stop hanno prodotto in Michelangelo una sorta di straniamento, dall’altra «Superata questa distanza, sono arrivato a leggerle in chiave consolatoria, una rappresentazione di quel ritorno alla normalità di cui sentiamo forte la mancanza».

Infine lui, Roberto: dal 2001 l’uomo d’affari privo di scrupoli, ciclicamente invischiato con Marina, donna d’affari priva di scrupoli, in un odi et amo senza esclusione di colpi; il padre glaciale nei confronti di Filippo e ottuso nel rifiuto di Sandro, il figlio gay; il cinico calcolatore, il gigolo vecchia maniera, il becero razzista che non risparmia umiliazioni agli ‘inferiori’, il suocero acido, il nonno rimbecillito. Questi Roberto, ma altri se ne potrebbero elencare, e i loro contrari hanno il volto e la voce di Riccardo Polizzy Carbonelli, un signore, invece, di rara simpatia. Sarà il potere della finzione scenica, fatto sta che il rapporto con il suo personaggio, Polizzy lo vive allo stesso modo di Tommaso. Roberto è presente, ma altrove. E se gli chiedi come sarebbe stato Upas dal 12 marzo in poi, risponde: «Il messaggio di fondo di Un posto al sole è un invito alla speranza. Un messaggio che scaturisce da figure e situazioni, tanto positive, quanto negative. Ecco: se dopo il 12 marzo avessimo potuto continuare, il nostro compito sarebbe stato quello di infondere speranza».

Canta la sigla di Upas «Se questa vita siamo noi/ lascia le cose che non vuoi/ È così poco il tempo per amare/ E un posto al sole ancora ci sarà». Un posto al sole ancora ci sarà.