Non l’avesse mai pronunciato quel nome Susanna Camusso. «Renzi come Thatcher»? Apriti cielo. Il leader massimo si è adontato e prontamente abbandonato all’aggressione verbale, come suo costume. Anche il segretario della Cisl si è molto infuriato, alla vigilia del suo brusco pensionamento. «Susanna ci rovina». Addirittura, povero Bonanni. Che si è subito dichiarato pronto a trattare su tutto. Come se qualcuno potesse dubitarne.

Ma poi è un paragone ben strano, a guardar bene. Che bisogno c’era di andare tanto lontano nel tempo e nello spazio, geografico e politico? L’analogia più calzante è un’altra, molto più prossima. Coinvolge un predecessore di Renzi a palazzo Chigi, anch’egli «di sinistra». Anzi, il primo presidente del Consiglio «di sinistra» dell’Italia repubblicana.
Renzi come Craxi, si dovrebbe dire. Il quale fu in effetti, nel nostro paese, il primo leader di un partito di sinistra a scontrarsi frontalmente, da capo del governo, con il sindacato (con una sua componente essenziale) su un terreno a elevato potenziale simbolico. Lo scontro sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ricorda da vicino quello divampato giusto trent’anni fa sulla scala mobile. Ed è curioso che la segretaria generale della Cgil rimuova questa ricorrenza.

Certo, ci sono molte differenze. Allora si veniva da una lunga stagione di conquiste normative e salariali, oggi il lavoro è alla canna del gas. Il problema negli anni Ottanta era un’inflazione a due cifre, oggi sotto la cappa della Ue il guaio è l’accoppiata deflazione-recessione. L’urto vide allora contrapporsi nettamente le due componenti storiche della sinistra italiana (comunisti e socialisti), con l’eccezione della «terza componente» di Vittorio Foa, sulle posizioni della maggioranza della confederazione; oggi i confini sono molto più sfumati e tortuosi. E gli schieramenti – in larga misura interni al Pd – frastagliati. Non facilmente riconducibili a coerenti ascendenze politiche, come mostra l’operare pro-Renzi degli ex-miglioristi del Pci, dietro ai quali si profila il minaccioso attivismo del capo dello Stato.

Nondimeno le vicende si somigliano molto, soprattutto per ciò che concerne il significato dello scontro e i suoi potenziali effetti di medio e lungo periodo.

In entrambi i casi è in gioco una posta simbolicamente pesante. L’idea che il lavoro sia un diritto richiama il principio della salvaguardia del salario reale. Ne va dei rapporti di forza nel conflitto generale di lavoro e del ruolo del sindacato, che il governo, oggi come ieri, intende ridimensionare o addirittura estromettere. Come trent’anni fa, il tema dominante della politica economica del governo è l’austerità, la necessità dei sacrifici e della moderazione salariale. E, come allora, anche in questi giorni a guidare l’attacco ai diritti acquisiti dai lavoratori è una parte della «sinistra», nella persona di un presidente del Consiglio che fa dell’offensiva antisindacale e del decisionismo cifre caratterizzanti dell’azione del governo.

Allora come mai nessuno sembra ricordarsi del precedente? Pare davvero una rimozione, che in parte si spiega con gli spettri che quel ricordo suscita. Si trattò effettivamente di uno scontro catastrofico per la maggioranza (comunista) della Cgil e per il Pci, che volle e perse il referendum sul decreto di san Valentino. Fu la seconda grande sconfitta di quel decennio di transizione, dopo i 35 giorni alla Fiat.

Un evento che sortì effetti rovinosi, così per la Cgil (e per tutto il sindacalismo confederale) come per il Partito comunista, che, già colpito dalla morte di Berlinguer, si sarebbe di lì a poco avvitato in una spirale distruttiva. Ma forse non è questo l’unico motivo dell’oblio. Ci fa fatica riandare a quei mesi a cavallo tra il 1984 e l’85 anche perché è doloroso riconoscere che spesso, nei passaggi cruciali delle crisi, la sinistra si spacca. E che una parte di essa si pone alla testa dell’offensiva contro il lavoro, le sue conquiste, i suoi diritti.

Già Gramsci ebbe modo di notarlo riflettendo sulla ricorrenza dei fenomeni trasformistici, e se ne fece una ragione chiamando in causa le radici borghesi di tanti capi del movimento operaio. Un secondo motivo consiste probabilmente nella complessità delle sfide che proprio la crisi pone. Fuori portata per gruppi dirigenti assuefatti alla routine e all’ordinaria amministrazione. Resta che la spaccatura è nei fatti, e che l’errore più grave sarebbe ignorarla o ridurla a una banale controversia di opinioni.

Non c’è nulla di episodico in quanto sta avvenendo, come nulla di occasionale avvenne trent’anni fa nello scontro sulla scala mobile. Non solo perché il terreno del conflitto è fondativo, ma anche per la natura della mutazione in corso. Che cosa significa che il segretario del maggiore partito della «sinistra moderata» nonché capo del governo in carica adoperi – com’è stato puntualmente osservato – parole e schemi di pensiero propri della destra? Difficile non vedere che con Renzi una traiettoria giunge al termine e una verità si rivela.

Gli urti, le resistenze, le convulsioni di questi giorni sono sintomi trasparenti della violenza con cui sette anni fa (guarda caso, proprio mentre scoppiava la grande crisi finanziaria) si mise capo alla fondazione del Pd. Violenza nei confronti delle storie e delle culture politiche, delle ragioni e delle passioni che avevano innervato per decenni la storia del paese. Si pretese di cancellare differenze essenziali liquidandole – lo si continua a ripetere – come cascami ideologici. E si impose lo schema – questo sì, iper-ideologico – dell’equidistanza tra capitale e lavoro, che sanciva la fatale subordinazione di questo a quello. Non c’era bisogno delle candidature eccellenti dei Calearo e degli Ichino per capire. Eppure non si volle capire.

Oggi quella parabola è al suo naturale punto di caduta. Renzi è il primo vero leader del Pd (Franceschini fu un luogotenente) non soltanto post-democristiano ma anche organicamente e fieramente anti-comunista. Con lui l’idea di sinistra muta di senso, conformandosi senza residui alla costituzione materiale del neoliberismo. Di qui – non da un uso malaccorto della retorica politica – l’enfasi sul mercato e sulla concorrenza, sui fannulloni pubblici e i privati operosi, sul merito individuale e il grasso che cola dalla spesa sociale. Di qui anche l’attacco virulento alla vecchia guardia del 25%. Non una voce dal sen fuggita, ma una inequivocabile dichiarazione d’intenti, a suo modo limpida e franca.

Se questo è vero, non c’è che una strada, per quanto resta effettivamente di sinistra nel partito renziano, per non consegnarsi più o meno inerti a un’agonia. E forse anche per aprire una pagina nuova nella storia del paese. Ridiscutere tutto, costi quel che costi, del progetto democratico e dei troppi passi compiuti, in questi anni, nel solco della restaurazione liberista. E trarne con coraggio le conseguenze, senza lasciarsi intimidire dall’ennesima inaudita intromissione del Quirinale.

Renzi aggredisce, provoca, maramaldeggia, ma arranca su tutti i fronti. Sarebbe prontamente disarcionato se anche la sinistra democratica si opponesse alle sue controriforme, gradite alla destra e al padronato. E sarebbe per di più costretto al voto anticipato (Napolitano dovrebbe rassegnarsi dinanzi a una ferma posizione del parlamento) con il consultellum, che spezzerebbe la camicia di forza che da vent’anni imprigiona la sinistra italiana. Diversamente non si tratterebbe di prudenza o ragionevolezza, ma solo di autoinganno e di un tragico malinteso.

Come voler tirare di fioretto contro chi attacca imbracciando un mitra.