Tra gli anni sessanta e settanta arte e fotografia si sono scambiate per certi versi i ruoli. Mentre l’artista ricorreva all’immagine fotografica per la creazione delle sue opere, il fotografo, nelle pratiche delle correnti allora in voga – body art, pop art, fluxus, arte concettuale – assumeva un ruolo autonomo, contribuendo al risultato artistico finale, fino a esserne il solo esecutore materiale.
Della prima fattispecie si è già detto parecchio; per la seconda c’è un campo di ricerche ricco di nuove possibili scoperte. Lo testimonia il lavoro della coppia di fotografi composta dal tedesco Harry Shunk (1924-2006) e dall’ungherese Janos Kender (1937-2009), attivi nel corso di un ventennio e impegnati per lo più nel mondo artistico di New York e Parigi.
Il loro archivio di oltre duecentomila negativi, stampe e altro materiale fotografico è stato donato nel 2013 dalla Fondazione Roy Lichtenstein al Getty Research Institute di Los Angeles, alla National Gallery di Washington, alla Tate di Londra, al Center Pompidou di Parigi e al MoMA di New York. È stato quest’ultimo, due anni dopo la donazione, il primo museo ad allestire un’esposizione del corpus fotografico di Shunk-Kender, ma va ai francesi del Pompidou il merito di avere concepito di recente la prima retrospettiva a loro dedicata. Questa, con il titolo Shunk-Kender L’art sous l’objectif (1957-1983), è approdata al MASI di Lugano, ma purtroppo, appena inaugurata, è stata chiusa per le misure sanitarie Covid19. L’abbiamo potuta visitare appena in tempo, ma il lettore, in attesa che l’esposizione riapra (scadenza, 14 giugno), può sfogliare un catalogo splendidamente curato, lo stesso della mostra parigina, stampato da Éditions Xavier Barral (pp. 484, 840 foto, € 49,00), una garanzia di qualità nell’editoria fotografica.
Dai capitoli del libro-catalogo corrispondenti alle sezioni della mostra si comprende con facilità che il lavoro dei due fotografi, chiamati a ‘registrare’ happening, performance e mostre per artisti e galleristi, non si esauriva nel compito della restituzione documentaria degli eventi così come, da noi, seppero eseguirla con bravura Ugo Mulas, Paolo Mussat Sartor o Enrico Cattaneo. Qualcosa di diverso attrae l’attenzione. In parte dipende dal ruolo che la coppia aveva rispetto all’attività degli artisti: non semplici testimoni, ma, soprattutto in alcuni casi, veri e proprio ‘complici’ nella realizzazione delle invenzioni.
Ad esempio Leap Into the Void (Salto nel vuoto), 1960, di Yves Klein è il risultato di un loro trucco. La famosa fotografia che mostra l’artista saltare da una finestra del secondo piano nella strada sottostante è un fotomontaggio compiuto attraverso due scatti sovrapposti: il primo della scena urbana vuota, il secondo dell’artista mentre si lancia a braccia aperte, ma protetto in basso da una rete di sicurezza.
Messa a confronto con il reportage che nello studio dello stesso Klein descrive l’happening Anthropométries (1960), durante il quale tre modelle nude poggiavano i loro corpi colorati di vernice sul muro lasciandovi l’impronta, si nota che qualcosa accomuna i due eventi, ma qualcos’altro li differenzia. La diversità riguarda i tempi e il modo in cui ognuna delle performance è fruita dal pubblico, e il ruolo che vi svolge l’obiettivo fotografico. Se è vero, infatti, che nel caso di Anthropométries Shunk-Kender operano nel campo della categoria «documentario», perché qualsiasi performance è originale solo nella misura in cui è documentata, in Leap Into the Void la categoria è «teatrale»: in altre termini, come rileva Philip Auslander (2016), le «rappresentazioni sono state organizzate esclusivamente per essere fotografate o filmate non avendo in sé alcun significato». Le immagini, in questo senso, non sono documenti, ma altro: forse un altro tipo di opera d’arte. Tuttavia in entrambi i casi per Shunk-Kender la creazione dell’arte performativa era una messa in scena per ottenere «l’immagine fissa» rigorosamente in bianco e nero.
Scrive Marcella Lista in catalogo: «La fotografia è stata chiamata a trasformare lo studio, il cortile, il lotto libero in una serie di palcoscenici prima che gli artisti iniziassero a immaginare di recitare le loro opere davanti a un pubblico o di pensare a fondo al processo creativo in termini di evento». L’elenco delle immagini «teatrali» che i due fotografi catturarono agli inizi degli anni sessanta riguardano molte delle performance più radicali. Si va da Sessione di tiro, 1961, il meeting organizzato da Niki de Saint Phalle per sparare contro i suoi rilievi di gesso, che una volta colpiti si coloravano della vernice racchiusa all’interno, alla Distruzione, 1963, dell’argentina Marta Minujín, rogo dei suoi lavori di borsista eseguiti durante il soggiorno in Francia; dall’impacchettamento di sette donne nude nel polietilene di Christo (Donna avvolta, 1968) a Esplosione anatomica, 1968, della giapponese Yayoi Kusama, modelle e modelli nudi che si dipingono con vivaci punti di pennello, oppure abbracciati, sul ponte di Brooklyn.
L’empatia di Shunk-Kender si coglie nel coinvolgimento con l’azione scenica, dove si rivela «il corpo in azione». La stessa empatia che, sotto un’altra prospettiva, viene documentata nel capitolo iniziale del catalogo (due sale su cinque nella mostra), dal titolo Intimità. Questa sezione raccoglie splendidi ritratti in b/n di Arman ripreso tra i rifiuti o nella sua vasca da bagno, di Spoerri intento a comprare ceramiche, di Tinguely indaffarato a saldare ferri, di Fontana, Albers, Beuys o Rauschenberg nei loro rispettivi atelier concentrati a dipingere, osservare o conversare.
Gli scatti sono istantanee còlte nelle più varie situazioni. Coinvolgono familiari (la bocca sdentata del piccolo Ohain, figlio del belga Bram Bogart, fra le immagini più divertenti) e spazi della vita domestica di ogni artista, così da fare intendere la familiarità che aveva la coppia di fotografi con ognuno di loro. Il culmine di questa «intimità» è il racconto fotografico all’Hotel Royale Biason, protagonisti Warhol e i suoi amici della Factory in trasferta a Parigi per una mostra alla galleria di Ileana Sonnabend (1965).
Infine, il progetto Pier 18 (1971). Su un molo abbandonato di Manhattan ventisette artisti – da Serra a Matta-Clark, da Buren a Morris – istruirono Shunk-Kender su come interpretare in libertà e senza testimoni le loro azioni. Anche qui la coppia dimostra che la fotografia di performance può diventare un’autentica creazione d’arte a futura memoria.