Presentato in anteprima italiana al Festival dei Diritti Umani di Milano, La casa delle estati lontane di Shirel Amitaï è il racconto di tre sorelle che si ritrovano assieme nel luogo della loro infanzia per vendere la casa ereditata dai genitori scomparsi. Girato fra gli interni dell’abitazione e il giardino di ulivi, l’opera prima della regista franco-israeliana ci parla dell’eredità di una casa, ma anche di una Terra, dell’identità di tutti noi, che affonda le sue radici nei luoghi e negli spazi che si occupano mentre si cresce e si vive, e ci dimostra che l’unico percorso possibile per la pace è quello che passa per la condivisione e la equa spartizione dei beni.

Com’è nata l’idea del film?

All’origine non c’è altro che un desiderio di pace. A partire da quella personale e esistenziale: la pace del singolo che si dona poi agli altri, alla famiglia, alla comunità. Per farlo occorre accettare le proprie paure, i propri limiti, i propri fantasmi e quelli di un paese intero.

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Ha scelto di girare «La casa delle estati lontane» in un preciso momento storico, quando questa pace la si poteva quasi afferrare, per poi vederla sfumare tragicamente. Come ha vissuto il dramma dell’assassinio di Rabin?

Sono franco-anglo-israeliana, dunque non ero in Israele in quei momenti di speranza e tragicità, nei giorni prossimi al 4 novembre. Ma sono cresciuta in Israele in un periodo in cui non esisteva un pasto, o un incontro in cui non si parlasse di pace. La morte di Rabin ha fermato tutto, ecco perché ho voluto parlare di pace. Non a caso nei dialoghi la parola più ricorrente è proprio shalom, che viene usata nel linguaggio di tutti i giorni anche solo per salutarsi.

Il tono da commedia nella narrazione è stato usato per alleggerire il tema o per renderlo più penetrante?

Per entrambe le motivazioni senz’altro. Quando riusciamo a essere leggeri ci apriamo a una dimensione più amorevole nei confronti degli altri.

Oltre a mescolare elementi lievi e drammatici, come ha lavorato nella sovrapposizione fra il piano magico dei fantasmi e quello più realistico della vita delle tre sorelle?

Dal momento che Rabin è un fantasma, non poteva rimanere solo: era importante che ce ne fossero altri. Ognuno di noi vive con dei fantasmi interiori, e il concetto si può estendere a una comunità o a un intero paese. In loro nome noi imbracciamo fucili e scateniamo guerre. Oltre a quello dei genitori, prende vita anche lo spettro del bimbo palestinese. Era necessaria la loro presenza per riflettere su come riusciamo a crescere in un paese come Israele, fanno parte della nostra realtà a tutti gli effetti. E proprio perché non amo la pesantezza, ho voluto che fossero trattati con leggerezza.

Come ha conosciuto Pippo Delbono e perché l’ha scelto per recitare la parte del padre?

L’ho visto a teatro in Francia e l’ho amato moltissimo. Ero alla ricerca di una coppia che non fosse scontata, ma internazionale, e avesse l’età della memoria, del ricordo delle figlie, dunque non troppo giovani né troppo vecchi.

In che modo ha ritratto tre sorelle dalla personalità così diversa e forte?

L’elemento principale che si accosta al concetto di sorellanza è quello di spazio, che ognuno trova e occupa nella propria vita, e che viene a definirsi molto chiaramente in un contesto familiare con fratelli o sorelle di età diversa. Le distinzioni vengono a crearsi già a partire dal piano fisico, con la sorella maggiore in mezzo. Sicuramente sono partita da alcuni stereotipi narrativi, ma proprio in virtù delle verità che gli stereotipi veicolano. Ecco che Darel, la sorella maggiore, rappresenta la guardiana del tempio, custode dei valori della casa e della famiglia. Asia, la più piccola, è in cerca di Dio, pratica lo yoga e cerca una spiritualità in maniera confusa ma idealista. Cali, la sorella di mezzo, occupa uno spazio di conflitti e contraddizioni.

Come si può inserire «La casa delle estati lontane» nei dibattiti sui conflitti in Medio Oriente?

Di fronte a certe questioni ognuno di noi tende a erigersi giudice. La guerra permanente si basa innanzitutto su una guerra verbale, una sciagurata dialettica di giudizi e di commenti su quella che è la situazione attuale. È molto difficile oggi parlare di pace, ma noi che non siamo né in Israele né in Palestina abbiamo il dovere di farlo. Se si conferma l’idea che una guerra in nome di Israele va perpetrata, non si arriverà mai da nessuna parte.