Per il mondo tutto quelloche lei era stata prima di essere assassinata a 23 anni poteva ridursi a una news. Per di più del 2005. Quando non c’erano nemmeno parole o quasi per dire la violenza di genere e si poteva derubricarla nell’indistinto annichilente della cronaca nera. Era accaduto a Berlino, Hatun Aynur Sürücü, veniva da una famiglia di emigrati turchi: il titolo recitava «Uccisa per essersi liberata del velo».

Ma nella sua storia – come in quella di altre donne tranciata dallo stesso viluppo di ragioni in questi anni – c’era incommensurabilmente altro, e con A regular woman di Sherry Hormann, vincitore nei giorni scorsi del Concorso internazionale al 27º Sguardi Altrove Film Festival, il suo sentire irriducibile è stato liberato dalla morsa della cattiva «narrazione per altri», dal peso di una ennesima insostenibile vittimizzazione. Perché nel film è Aynur stessa a dirsi in voce over in prima persona post mortem, annunciata sin dall’incipit.

«Potrei essere lei. O lei. O lei», confida mentre alcune giovani ragazze con o senza velo camminano per strada nella luce lieve del mattino. Poi si fa buio e compare un corpo disteso per strada, coperto da un lenzuolo bianco. A terra le chiavi di casa dei suoi, un pacchetto di sigarette. «Invece sono questa, mio fratello mi ha ucciso».

Così, hitchcockianamente, chi guarda sa da subito e teme. Mentre, leggendo dal fondo nero, Aynur elenca i sei esempi di «cattiva condotta» della donna che, secondo l’ufficio di Polizia Federale Criminale turco, sono considerati determinanti nel delitto d’onore, in Italia abolito nell’81. E se lei – tra questi – non si oppone al matrimonio forzato, la prima grande infrazione alle «regole» la compie lasciandosi alle spalle la Turchia e un marito violento, la seconda sottraendosi alla casa d’origine dove era tornata incinta, leggi schiava, e dove aveva subito le molestie di uno dei tre fratelli estremisti. Quindi riprendendo a studiare all’università e lavorando, andando a ballare con un’amica, convivendo con un uomo gentile… E soprattutto decidendo di non portare l’hijab. Cosa che per la sua famiglia «equivale a essere una terrorista». Nel frattempo subisce dai fratelli una escalation di stalking, pure, continua a sperare nella loro tardiva comprensione. «Direte, avrà imparato e si deciderà ad allontanarsi dalla sua famiglia tossica?» Intanto di azioni deflagranti ne ha compiute eccome, e si rivolge anche alla polizia. Inutilmente.

Innanzi a tutto questo, chi guarda è chiamato direttamente in causa. Perché se a processo finisce Nuri, il più piccolo (che rivendica di aver agito solo), insieme agli altri due fratelli, diretti persecutori di Aynur, come si è composto l’intreccio deviato delle responsabilità individuali e collettive? É stato nella moschea dove l’imam si dispiace del fatto che in Germania la legge non consenta la lapidazione delle donne, dove instilla violenza e fa propaganda? O sull’autobus a Berlino dove Aynur è pubblicamente più volte schiaffeggiata e insultata dal fratello senza che nessuno intervenga? O in tribunale?

Come in una tragedia greca contemporanea, a grandi caratteri rossi emergono così dei bassorilievi fotografici a colori violenti, i nomi e i volti di tutti i personaggi di questa trama nefasta: da quelli più efferati come i tre fratelli, a quelli più ambigui come i genitori e la sorella più grande, a quelli dalla sua parte come un fratello, l’amica, l’assistente sociale, il capo, fino a Evin, la ragazza alter ego di Aynur, cresciuta in una famiglia musulmana ma aperta, che Nuri vorrebbe plagiare fino a farne la sua fidanzata nonché suo alibi a testimoniare il falso al processo, o la madre di quest’ultima, Dilber.

Tutto questo in un film che è bruciante impasto di ricostruito e reale, con un’attrice (Almila Bagriacik), somigliantissima alla vera Aynur, che appare solo in brevi epifanie dal repertorio video privato. Ma sempre nella sua pienezza di donna, col suo bambino in braccio, giocando con lui al parco nel sole, baciando il suo compagno o guardando senza paura in macchina con la sua tuta da lavoro prima di prendere il diploma da elettricista, per cui studia. Allora il racconto in prima persona non è solo simbolo. È ricucire il filo spezzato, è rivendicare il diritto all’autonarrazione. É il solco dell’esserci state che si perpetua in esserci e che non può finire.