Il festival di Volterra arriva alla sua trentesima edizione. Una storia lunga, iniziata con Gassman, proseguita da Renato Nicolini e poi con Roberto Bacci, finché l’esperienza della Fortezza elaborata da Armando Punzo acquistò con gli spettacoli dei detenuti la sua assoluta centralità. Un carattere che continua a segnare la rassegna, non solo perché ne è l’evento maggiore e di maggior richiamo, ma perché ne informa anche il senso e il processo sempre di più ad ogni edizione, dove i singoli spettacoli presentati sono influenzati (e talvolta perfino messi in ombra) dalle sedute di approfondimento e riflessione sui temi più svariati, dalla poesia all’estetica, dalla performance all’editoria. Evidentemente una formula che funziona e che soddisfa la committenza cittadina.

Non a caso il tema generale del festival di quest’anno era «La città ideale”», che non è solo un tributo alla storia e all’urbanistica volterrana, quasi una perfezione isolata dal mondo sul suo sperone di roccia, ma anche il sogno di una comunità cittadina, che nelle sue più disparate e necessarie articolazioni è il mondo al cui centro dovrebbe collocarsi il teatro, senza aggettivi.
La tecnica del progressivo approfondimento per altro, in stretta connessione con quanto avviene «di fuori», è anche quella usata per il suo lavoro sul palcoscenico del carcere da Armando Punzo, una esplorazione certosina della scrittura anche più visionaria, che ogni anno viene restituita più netta e definita nei corpi dei detenuti attori che la incarnano, negli oggetti di scena, nei suoni, nei movimenti e nei gesti che si rarefanno come in un rito orientale, ma proprio per questo finiscono per stagliarsi nell’occhio e nella memoria, contro il sole accecante che impietoso arroventa il cortile del carcere, salvo aggrumarsi in nuvole nere che tempestano il pubblico a tradimento, come è successo il giorno del debutto.

Lo spettacolo di quest’anno in realtà era già nato nel 2015, ma Punzo, come è spesso accaduto in questi anni, ha continuato a lavorarci assieme alla sua compagnia, anche perché il tema era titanico, o pure infinito: Dopo la Tempesta, l’opera segreta di Shakespeare. Oltre ad essere uno dei testi terminali del poeta inglese, La tempesta è anche un inno, e insieme un testamento, del teatro e della sua ricchezza. Il mago Prospero, il suo protagonista, è un vero e grande facitore di teatro, che è appunto la sua magia. In questa chiave, Punzo stando sempre al centro della scena evoca per noi spettatori tutti gli altri giganteschi personaggi shakespeariani. Ognuno dei molti attori (con poche attrici, evidentemente esterne al carcere ma ben integrate al resto della compagnia) svela a tratti l’identità del personaggio, da un particolare del costume o elevando le proprie parole sopra il brusio degli altri.

Ma il fascino di quel labirinto è quella sorta di moto perpetuo, dai costumi lussureggianti e antinaturalistici: le gorgiere costituite da libroni, i gonnelloni candidi strascicanti, la gobba e il piede battente di Riccardo III, il fazzoletto di Desdemona issato come stendardo sul suo braccio levato. Il tutto dentro un paesaggio di grandi croci e scale di legno, che solo alla fine vanno a comporsi in maniera unitaria. Per il resto le citazioni da tutti i testi del Bardo volano libere, libere dai personaggi e dai ruoli, in un unico magma che supera l’intreccio delle singole opere per comporre un frastagliato mosaico shakespeariano.
Fino all’appassionante intervento finale dell’attore ucraino, «Come se il mondo dovesse cominciare solo ora». Ovvero quando tutta quella conoscenza avrà sedimentato negli artisti e negli spettatori, che con quella ricchezza potranno lanciarsi in