Ci vorrebbe una panoplia di picche e stendardi o un volto coperto da una maschera di sangue per pubblicizzare questi Drammi storici di Shakespeare (et alii) – ai suoi tempi un faticoso, discontinuo, e a tratti splendido, esperimento teatrale: quattro secoli di storia (o meglio cronaca) inglese, dal Medioevo al Cinquecento, messi in scena spesso da attori scalcinati su testi e tavolacci sconnessi. Franco Marenco dirige con mano esperta e infaticabile la meritoria e necessaria impresa di darci il nuovo Shakespeare italiano, condotto sulla edizione Oxford del 2005 (curatori Stanley Wells, Gary Taylor, John Jowett e William Montgomery). Pubblicati nella collana dei «Classici della Letteratura Europea» di Bompiani, questi grandi volumi, eleganti e di ottima fattura, si sfogliano con piacere anche se difficili poi da collocare. Tutto è iniziato nel 2014 con i primi due volumi, Tragedie e Commedie, e adesso è alla prova più difficile: le 3289 pagine di questo terzo volume (Tutte le opere I drammi storici, € 55,00), dodici testi filologicamente aggiornati da attribuzioni, collaborazioni, varianti, note, e le singole introduzioni di anglisti di diverse generazioni (D. Borgogni, V. Poggi, C. Pomarè, M. Stanco, C. Corti, R. Ciocca, P. Dilonardo, G. Ferruccio, E. Zuccato, C. Gallo) che hanno compiuto dodici «atti d’amore» – come sono state definite le traduzioni.
Prima edizione in-folio
I drammi storici – Histories nella prima edizione in-folio del 1623 dovuta a due attori, Heminges e Condell, che avevano raccolto gli sparsi testi abbandonati dal loro autore, distratto o incurante – sono materia pulp. Il sangue scorre a fiumi: «blood occupa quattro pagine delle fitte doppie colonne della Concordanza di J. Bartlett: la maggior parte delle quali rinvianti ai drammi degli Enrichi e dei Riccardi. All’incirca la stessa frequenza con cui appare la voce ‘morte’ (death), e metà dello spazio occupato dalla voce ‘amore’ (love) in tutta l’opera di Shakespeare» (Gabrieli). I tanti nobili che vi compaiono, traditori o inetti, sono messi a morte non appena enunciata l’ultima frase perfetta, abbattuti come animali o affogati in una botte di malvasia; gli odiosi stranieri, spagnoli o francesi, che invadono l’English Channel saranno per sempre sconfitti; i re, inermi o tirannici, vittime o machiavellici predatori, si succedono l’un l’altro, ripetendosi e ritornando nel cieco ordine che governa i regimi politici secondo la parabola di vita (anaciclosi) descritta da Polibio nelle sue Storie: inizio, decadenza, drammatica fine e nuovo inizio (Gabrieli). La tradizionale tesi di Tillyard sui drammi storici è aggiornata dagli studiosi italiani ( Ferrara, Melchiori, De Micheli, Pugliatti, Ciocca) che mettono in evidenza la polifonia culturale di quel periodo, la fitta rete di intrecci fra poteri diversi, di resistenze e contropoteri. La cronaca événementielle delle fonti storiche – Hall e Holishend – è manipolata con disinvoltura, l’intervento di una provvidenza divina che governa la storia è accantonato, ma persiste l’interpretazione tipologica per cui nel passato si legge il presente.
La propaganda Tudor picchiava duro specialmente sui groundlings, quel popolino che pagando un penny poteva assistere allo spettacolo in piedi sotto il sole o la pioggia. Occorreva piegare l’antico spirito libertario e anarchico di contadini, artigiani, servi. Nel King John non si fa menzione della Magna Charta (1215) che riconosceva i diritti tradizionali dei nobili e del clero, un primo limite allo strapotere del re. Il ribelle irlandese Jack Cade «con un’accozzaglia cenciosa di servi e contadini, rozzi e spietati» entrò nella City nel 1450 al tempo delle enclosures, le recinzioni che sottraevano terreno arabile ai contadini per riserbarlo all’allevamento del bestiame, una nuova pratica più redditizia. Le sorti del disperato esercito dei senza terra sono ricordate da Tommaso Moro (Utopia, 1516).
Hotspur leale coraggioso Cade riporta in scena la ferina figura del Vice medievale – come farà anche Riccardo III nei suoi spasmi di crudeltà – ed è un grande odiatore della scuola di grammatica, della stampa, della cartiera, di sostantivi, verbi «e simili parole obbrobriose, intollerabili a orecchio cristiano». È offerto all’ammirazione dei giovani lo spiritoso Hotspur, il signorotto di campagna, leale e coraggioso, che sbeffeggia il cortigiano italianato, abituale bersaglio dell’odio popolare, e infine il modello più accattivante di principe, Hal complice di Oldcastle-Falstaff in sfrenate avventure e nello sfregio carnevalesco alla regalità. «Lo stuolo di vassalli che circonda Falstaff era indispensabile a richiamare le platee; a quel vitale rapporto provvedevano i codici e i sottocodici praticati sulla scena, e masticati entusiasticamente dagli spettatori» (Marenco). Per quel pubblico eterogeneo ed esigente, in attesa del brivido caldo dell’horror – teste sulle picche, re in delirio, regine offese prostrate in pianto – ci volevano esemplari figure, fortissime emozioni, e colpi di scena a ripetizione.
Il lamento di Costanza per il piccolo Arthur ci arresta, e si fissa per sempre: «Il dolore colma l’assenza lasciata da mio figlio, si corica nel suo letto, passeggia insieme a me, assume i suoi bei lineamenti, ripete le sue parole e mi ricorda tutto il suo piacevole sembiante. Riempie i suoi abiti vuoti con la sua forma». Impotente, la regina Elisabetta, oratrice instancabile, grida al malvagio Riccardo: «…e io, come una povera barca derubata di vele e sartiame, in quel ferale golfo di morte correrei a sfasciarmi sul tuo cuore di pietra». Risplende a tratti il magico fascino della corona regale, causa prima di tanto male, «nel cui cerchio è l’Eliso», e gli oggetti emblematici della regalità: «l’unguento sacrosanto, lo scettro, il globo / la spada e la mazza, la corona imperiale, / il manto tessuto di oro e di perle» elencati da Enrico V. I re, grandi personaggi favolistici, emersi dalla rigogliosa fantasia barocca, invocano un loro doppio differente: la vita del pastore per re Enrico, un mendicante, una nullità per Riccardo II – il tiranno-martire secondo la tipologia di Benjamin –, un impossibile altro da sé per il criminale Riccardo III dell’ultima scena. Realistici, presenti a se stessi e al proprio compito, sono invece i due Tudor, padre e figlio, il machiavellico Enrico IV e il fascinoso Enrico V.
Altro tema vibrante è la bellezza dell’Inghilterra, l’isola di smeraldo, «questa fortezza che la natura ha costruito per sé, per difendersi dalle infezioni straniere e i disagi delle guerre, questa felice progenie di genti, questo piccolo universo, pietra preziosa incastonata in un mare argenteo…». In quel sentimento religioso del nazionalismo si annidano anche Dunkirk, la Brexit e i vezzi ben noti dell’inglesità. Né le piccole, ribelli, patrie sono dimenticate nell’epico Enrico V: un gallese, uno scozzese, un irlandese, che parlano un buffo inglese, combattono al seguito del giovane re. Il pubblico tutto è invitato dai magnifici Cori a supplire per ogni atto scenografia e regia. «Immaginate ora di vivere i momenti in cui un recondito mormorio e l’infittirsi delle tenebre saturano la vasta cupola del cielo. Da un accampamento all’altro, nella cupa cavità della notte, risuona sommesso il brusio dei due eserciti, e le opposte sentinelle quasi si scambiano segreti bisbigli. Si fronteggiano i fuochi dei bivacchi … Cavallo minaccia cavallo con alti arroganti nitriti … Cantano i galli nella campagna, rintoccano gli orologi designando l’ora terza del tiepido mattino».
Shakespeare – an absolute Johannes factotum lo chiamò un collega invidioso – è anche disposto a confidare i segreti del mestiere: come gli architetti: «prima esploriamo il terreno – plot in inglese che significa anche intreccio, storia – poi disegniamo il modello; e quando vediamo la figura della casa, allora dobbiamo calcolare il costo della costruzione. Se poi troviamo che supera la nostra capacità, cosa fare se non disegnare un nuovo modello con meno spazi, o, altrimenti desistere del tutto dal costruire?». In un difficile progetto politico si può provare a mettere su carta «i nomi degli uomini e non gli uomini», esattamente come fa il drammaturgo.
Gabriele Baldini, 1963
Ma resisterà quell’astuto e supremo artefice per quattro secoli osannato come demiurgo, genio, il Bardo, alla corrosiva demitologizzazione a fin di bene, iniziata dai suoi stessi ammiratori? Ne parlava già Baldini che nel 1963 dava alle stampe la traduzione di tutta l’opera shakespeariana, e lo sosteneva Manganelli che intendeva far fuori anche le macchinose interpretazioni filosofiche e genericamente psicologiche che pretendono di capire l’uomo attraverso i suoi personaggi. Un nuovo capitolo si apre con l’arrivo della stilistica computazionale che può offrire un controllo all’andirivieni delle attribuzioni, fissare la cifra stilistica di un autore, e tutto quel che ne consegue. In questi Drammi storici Marenco e i suoi collaboratori hanno accettato quanto di buono se ne è finora ricavato, risolvendo vecchi problemi, gettando più luce su quella scena, fin’ora nell’ombra, della gestazione del testo drammatico. Un sarcastico Brian Vickers sul «Times Literary Supplement» (aprile 2017) avverte che abbiamo un New Oxford Shakespeare, stipato in un solo volume, accompagnato dall’indispensabile Critical Reference Edition, altri tre volumi, dall’Authorship Companion, e in arrivo tra qualche anno due volumi di «Complete Altermative Versions»… Se colui che «diventa tutte le cose, pur rimanendo se stesso» (Coleridge), «Quell’uomo scorretto che non di rado scarnifica i suoi oggetti» (Schlegel), «Shakespeare perfetta canaglia» (Manganelli) non rimarrà sepolto sotto le macerie dell’assalto editoriale, lo si dovrà ai teatranti che lo trattano come il lievito indispensabile a fare il buon teatro.