Visioni

Shakespeare nella Fortezza

Shakespeare nella Fortezzadue momenti dello spettacolo della Compagnia della Fortezza – foto di Stefano Vaja

A teatro Per la ventisettesima estate la Fortezza medicea di Volterra cessa di essere un carcere e mostra al pubblico il lavoro che Armando Punzo conduce con i detenuti

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 1 agosto 2015

Sono ormai 27 le estati (e gli spettacoli) cui Armando Punzo invita il pubblico esterno nel cortile infuocato dell’ora d’aria nella Fortezza di Volterra, il Mastio Mediceo, il supercarcere insomma. E questi anni traspaiono con forza a seguire il diagramma di tutti quei titoli. La prima volta fu un pezzo «popolare» e affabulatorio, anche se non privo di necessari virtuosismi: La Gatta Cenerentola di De Simone. Attraverso la visita, lungo tutti questi anni, alle scritture sempre più complesse di Brecht come di Genet, si arriva quest’anno a un vero «saggio», per quanto visionario e onnivoro, che nasce dall’insieme dei titoli del massimo drammaturgo della tradizione occidentale, William Shakespeare. Con la sfrontatezza amorosa dell’amante fedele, proprio Shakespeare Know Well afferma il titolo. E pare proprio, a stare a quanto racconta Armando Punzo, fondatore e ispiratore della Compagnia della Fortezza, nonché regista e figura scenicamente sempre più centrale degli spettacoli, tutti i detenuti attori hanno letto con lui l’insieme dei 39 testi shakespeariani, nei mesi scorsi.

Poi, hanno deciso di comune accordo di tagliar via tutto ciò che era «narrativo», ovvero storie, vicende, parentele e dinastie, per tenere, e mostrare e gridare, solo quanto era parso loro significativo, essenziale, evocativo, forse anche paradossale, di quella scrittura torrenziale, sebben così drammaturgicamente «circostanziata».
Lo spettacolo non ambisce alla chiarezza, che infatti non ha in senso tradizionale, ma punta dritto alla conquista dello spettatore, alle sue emozioni, evocazioni, ricordi, perfino quando non riesce a rintracciarne la fonte specifica, o il personaggio che quella certa cosa dice. È un gioco potente e visionario, che movimenta l’assistervi, così come l’agire di guerrieri e prelati, nobildonne e dignitari, in abiti barocchi o anonimi vestiti di oggi. E poi cortei di creature inquietanti, la cui gorgiera è fatta di un libro o di qualche altro oggetto, e il corpo fasciato da grossi tessuti (ora bianchi ora neri) dal lungo strascico che cadenza i tempi comuni di marcia. L’unico personaggio sicuramente riconoscibile è Desdemona, per via di quel fazzoletto traditore che la governa e la condiziona. Tutti gli altri son fantasmi e apparizioni di più complessa individuazione, anche se di non minore forza e suggestione. Con un elemento nuovo, sorprendente nel contesto carcerario: l’aumentato numero di presenze femminili, evidentemente esterne alla Fortezza.

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La scena è una vera foresta, ma non il classico boschetto pronubo di tanti Shakespeare, ma un recinto di croci e di scale. Croci spesso storte, di ogni grandezza e foggia e condizioni: quasi un reperto del medioevo da cui non si sa come uscire, nonostante i tentativi ripetutamente intrapresi di inerpicarsi sui pioli puntati verso il cielo. Al centro troneggia un grande letto, luogo di congiure e tradimenti ed espedienti, buono a tutto meno che al riposo e all’amore: piuttosto piattaforma, per quanto poco affidabile, di tutte quelle umanità in continuo conflitto. Un tavolo con molti bicchieri diversamente pieni: a un tratto, assieme a dei bambini improvvisamente apparsi, Andrea Salvadori (che non ha solo composto le musiche, ma per tutto il tempo alle tastiere ha condotto un acido controcanto alle azioni) ne ricava un altro brano di partitura, su quelle acque più infide delle parole. Come suoni sinistri e cadenze ferrate danno, con l’ausilio dell’elettronica, il cadere e il muoversi delle molte stoviglie metalliche.

Mentre l’azione va avanti, si individuano più facilmente Amleto (non i suoi «dubbi», ma il suo rapporto col teschio e i becchini); e anche della Tempesta si individuano ampie folate. Alla fine, il balcanico Ivan (l’attore rivelazione di questa edizione) dritto sulla scala quasi a un passo dal cielo che sembra toccare col dito, grida la sua suggestione morale, mixando Giulio Cesare e Enrico IV. Il pubblico resta quasi interdetto: se non ha riconosciuto il «suo» Shakespeare, ora «sa bene» però che ne può esistere un altro, misterioso e forse anche minaccioso. I suoi contorni sbiadiscono da un testo all’altro, o meglio trascolorano. E su ogni grado di intensità, l’autore inglese è artefice di magie e profondità, di scherzi crudeli e di verità ineluttabili

Armando Punzo ha presentato la performance come uno studio, secondo il metodo abituale, promettendo per anni futuri la versione definitiva dello spettacolo. Ma è difficile immaginarne variazioni perfettibili: a ritoccarlo, lo spettacolo visto, rischia di perdere qualche elemento di forza (magari quella struggente Paloma che a un tratto esce con grande cuore dall’amplificazione….).

Ma di fronte all’entusiasmo che anche questa volta la compagnia della Fortezzza è riuscita a suscitare, è arrivata dal ministero della cultura la «doccia fredda» del finanziamento sempre più risibile (come del resto è toccato l’annullamento completo a Riccardo Caporossi e all’Organizzazione Scenario, tra i molti). Che la conclamata legge di riforma del teatro fosse un bluff, e di difficile gestione, era stato chiaro da subito. Non se ne poteva render conto l’attuale ministro, che sembra veleggiare solo in base ai propri, discutibili, «gusti» che non esita a proclamare, da quelli sui festival fino al Colosseo come scenografia televisiva. Deve saperne qualcosa di più l’attuale direttore generale che in quella legge e quei regolamenti ha rimesso più volte le mani. Ma purtroppo proprio domani scade, e passa a nuovo incarico, commissario straordinario sull’area di Bagnoli. Con tanti auguri al golfo di Napoli.

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