Negli ultimi anni abbiamo sempre cercato di essere presenti alle pubbliche occasioni in cui era ospite Ettore Scola. La sua capacità di raccontare era veramente affascinante, le sue riflessioni contenevano un’arguzia impagabile, il suo stile pacato pronto alla stilettata. Ci eravamo in qualche modo riappacificati con una generazione di cineasti che, fatta l’Italia, lanciato il nostro paese per sempre nella storia del cinema mondiale con la commedia, di fatto aveva anche rifatto i connotati agli italiani. E, a vederli, apparivano così mostruosi da averne preso le distanze. Ma perfino oggi, in una rapida inchiesta al giornale per sapere quale dei film di Scola fossero stati apprezzati di più è stato proprio Brutti sporchi e cattivi ad aver ricevuto il maggior numero di consensi.

 

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Un bellissimo ritratto Scola ha fatto di se stesso nel suo ultimo film, giocando di sponda, con l’intenzione di parlare di Fellini. In Che strano chiamarsi Federico (2013) compare il giovane Scola, classe 1931, liceale arrivato a Roma dalla provincia avellinese, nella redazione del Marc’Aurelio a proporre le sue vignette e battute: è in questa fucina di ingegnosi talenti che nascerà il nuovo cinema italiano del dopoguerra, la commedia in diretta competizione con il neorealismo per smorzarne lo sguardo troppo vigile. Raccontava: «Totò, Macario, Tino Scotti, Croccolo e altri facevano una quantità di film e tutti quei film andavano scritti, il film è scrittura. Si trattava di venti, trenta film all’anno, li scrivevano Metz e Marchesi, buttavano giù delle sceneggiature e le passavano a dei giovani umoristi del Marc’Aurelio, del Travaso. Dicevano: aggiungete delle battute, delle gag. Io ho cominciato così.

Ero orgoglioso, mi sarei fatto il biglietto da visita con scritto: Ettore Scola, negro» (è sua «data la moria delle vacche, come voi ben sapete» molto lodata da Totò).
Con questo spirito esordisce nel ’64 nel lungometraggio (composto da sette episodi) con Se permettete parliamo di donne, sceneggiatura scritta con Maccari, il volto di un’Italia piuttosto arretrata nei costumi, paradossale nelle soluzioni, lupare e tradimenti. Ma di sceneggiature ne aveva già scritte a quel punto più di quaranta, compresi i film di Totò, Un americano a Roma con Sordi («dava fastidio a tutti i lavoratori, muoveva la scala degli elettricisti, si divertiva a spaventare le persone»), il celebre Sorpasso («un’Italia che tornava a rovinarsi»). Sì, gli sarebbe piaciuto dirigere quei film, ma diceva, «avevano quella grazia in più che io non volevo avere». Era certamente più vicino a Pietrangeli (scrive Io la conoscevo bene) che a Rosi, per una vena di malinconia che emergerà in tutta la sua forza nel bellissimo Una giornata particolare realizzato spiazzando il pubblico nel ’77, l’omosessualità e la condizione della donna, due realtà negate, la messa in scena di due solitudini nel giorno di oceanici raduni.

 

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Complice Maccari e Vittorio Gassman, firma La congiuntura nel ’65, l’Arcidiavolo (’66), già anticipa la fuga dall’Italia in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparsi in Africa? (’68) con Sordi e Manfredi (e Age e Scarpelli sceneggiatori) in un’Angola dove entrano in scena venditori di armi, mercenari e italiani cialtroni, il disincantato Commissario Pepe (’69) interpretato da Tognazzi mette in piazza gli svariati peccatori della provincia ed entra trionfalmente negli anni settanta con alcuni film che fecero epoca come Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (1970) una Monica Vitti sganciata per sempre dai film di Antonioni non senza qualche frecciata, C’eravamo tanto amati (1974) dove già si parla di una resa dei conti, la satira della tv dell’epoca Signore e signori buonanotte (’76) Brutti sporchi e cattivi (1976) premio alla regia a Cannes, dove il grottesco emerge pesantemente come del resto in altri film dell’epoca, un raccapricciante popolo delle baracche (e mentre i film di Pasolini santificavano il popolo, qui ancora con Maccari si ristabiliscono le distanze).

Ancora una volta si sente la profonda differenza generazionale: mentre i ragazzi del ’68 nelle baracche ci andavano ad aiutare i ragazzini a studiare, tutti leggevano Lettera a una professoressa di don Milani, Asor Rosa spiegava a una generazione di futuri professori la traccia di populismo che collegava gli scrittori italiani, il cinema italiano continuava a mostrare la sua visione sempre un po’ dall’alto del del suo sapere raffinato. Quelli riuniti sulla fatidica Terrazza risultavano essere altrettanti mostri, intellettuali comunisti distanti dalla «nostra» sinistra (in terrazze limitrofe si riuniva l’underground, quello che restava della beat generation, militanti, musicisti e danzatori…). Un film che fece arrabbiare tutti, soprattutto i compagni di partito che pensavano di essersi riconosciuti (Pajetta, Scalfari, Moravia, Beniamino Placido…) e invece erano prototipi, un gruppo di amici che faceva bilanci, come nel lontano dopoguerra, ma con più disincanto.

 

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Con l’entusiasmo di chi sentiva di dover cambiare il paese appena uscito dalla guerra quei ragazzi del cinema della generazione del ’20 e del ’30 erano stati un gruppo di complici che avevano uno sguardo comune, si stimavano, si stuzzicavano e facevano nascere idee – Steno, Risi, Pietrangeli, Fellini – in «un paese che amavamo. Come si fa oggi a dire che si ama questo paese?». Scola che a un certo punto ha dichiarato di voler smettere di fare film («finché c’è Berlusconi»), diceva di aver fatto sempre lo stesso film e di aver smesso quando non è più riuscito a individuare il nemico né riuscire a sapere con chi te la devi prendere. Ormai le responsabilità erano diventate diffuse, collettive.