«È un paesaggio frammentato di identità» dice Luca Guadagnino del suo nuovo progetto, una serie tv – la prima per il regista di Call Me By Your Name – per Hbo e Sky, che dopo la presentazione in anteprima al Festival di San Sebastian (che si è concluso ieri) e il debutto sulle tv statunitensi il 14 settembre arriverà in Italia su Sky (e Now Tv) il 9 ottobre.

CON LE SUE VILLETTE a schiera e i prati all’inglese l’immaginaria base americana nel cuore di Chioggia in cui è ambientata We Are Who We Are è però la negazione dell’identità frammentaria. Come spiega una delle adolescenti che la abita, Britney (Francesca Scorsese), la base è praticamente identica (perfino nella disposizione dei prodotti al supermercato) ovunque nel mondo – Corea, Germania, Italia – «per non perdersi», per dare un senso di familiarità a chi la abita, la sensazione di aver attraversato il mondo senza essersi mossi da casa. È in questa comunità che nella prima puntata arriva da New York il quattordicenne Fraser (Jack Dylan Grazer ) con le sue due madri, entrambe nell’esercito: Sarah (Chloë Sevigny), colonnella incaricata di dirigere la base, e la compagna Maggie (Alice Braga). L’outsider Fraser, unghie dipinte e abiti ricercatissimi, è destinato a essere colui che rimette in moto le identità apparentemente stabilite, nel caleidoscopio di passioni e sentimenti che comporta l’adolescenza e la scoperta di sé dei protagonisti: perdersi e ritrovarsi è proprio il senso della loro «avventura».

Il paesaggio frammentario delle identità è infatti quello interiore dei personaggi, e la scommessa di Guadagnino quella di portarlo sullo schermo senza seguire le tappe precostituite della narrativa, o del progetto «sulla carta». Come spiega lui stesso al «New York Times»: «Non mi appassionavano tanto i ’temi’, né lo zeitgeist. Invece, quello che trovavo interessante era una narrativa televisiva non tanto dal punto di vista dell’azione o del plot, ma più da una prospettiva del comportamento».

QUELLO dei suoi protagonisti adolescenti, oltre a Fraser la giovane compagna di scuola Caitlin (Jordan Kristine Seamón), anche lei alla scoperta della propria identità – «fluida» in termini sessuali ma divisa anche fra il paese natio della madre, la Nigeria, e quello in cui è nata, gli Stati Uniti, Chicago, di cui la mamma guarda il meteo ogni giorno – oltre all’«isola» americana dove è stata trapiantata nel bel mezzo del Nord Italia. Ma anche l’identità musulmana che la sua famiglia si è lasciata alle spalle e che entra in collisione con la presidenza Trump appena insediatasi (siamo nel 2016), l’approvazione del Muslim Ban, e ciononostante l’ormai tristemente famoso cappellino rosso – Make America Great Again – che il padre di Caitlin (il rapper Kid Cudi) ordina per sé e la figlia.

Lo spaesamento geografico e culturale – «Gli americani possono essere felici solo in America» dice Fraser a Maggie, che gli risponde: «Sei in America» – fa da cassa di risonanza a questa scoperta di sé e del mondo, così come le si oppone, mettendola ancor più in risalto, l’anonimato dell’ambientazione, della piccola America lontana dall’America. Un po’ come in Heimat 2 di Edgar Reitz al cambiare dell’episodio la prospettiva slitta su un nuovo personaggio – a partire dal «doppio sguardo» sulla giornata in cui Fraser arriva a Chioggia, e il suo incontro con Caitlin prima fra le mura della scuola e poi in una lunga giornata d’estate in riva al mare: in fondo We Are Who We Are è la ricerca di una heimat interiore, anche per gli adulti che ridefiniscono loro stessi la propria identità nel rapporto con i figli che crescono.

LA MINISERIE in otto puntate è «un’esperienza immersiva nell’identità» dei personaggi, dice ancora Guadagnino. A guidare il «viaggio» dello spettatore in questo paesaggio interiore sono i giochi di sguardi, la musica che accompagna le giornate o dentro cui isolarsi – nella bellissima colonna sonora si va da Anna Oxa ad Action Bronson e Kanye West – le piccole avventure apparentemente senza importanza come l’ingresso in un nuovo gruppo di amici, le prime mestruazioni o il riconoscimento nell’altro dei propri stessi sommovimenti interiori. E in questa traiettoria di sguardi e passioni tradotte in immagini prende forma, sul corpo degli attori che la mettono in scena e la vivono, una «sinfonia» dell’adolescenza senza luogo né tempo.