Aveva solo 22 anni Frank Cancian quando, forte di una borsa di studio sbarcò a Lacedonia preparandosi, lui ragazzo americano immerso nei propri studi, a connettersi con la vita della popolazione irpina, le sue feste, il lavoro in campagna, la vita in strada, nelle piazze, al bar. La prima traccia della sua documentazione è visiva, da autodidatta, con una predilezione per la ritrattistica e la mimica insistentemente ricercata negli stessi soggetti: era il 1957 e Cancian, che poi sarebbe divenuto un celebre antropologo, scattò 1801 fotografie. Una testimonianza inedita a quei tempi, soprattutto perché – come spiega Francesco Faeta, chiamato dal festival di Castelnuovo a raccontare quell’avventura culturale (racchiusa anche nel libro edito da Postcart Un paese del Mezzogiorno italiano, 2020) – le immagini scartavano dal neorealismo e da una certa «incorniciatura» del sud, per seguire le storie dei personaggi, apparecchiando sequenze narrative. A volte, nascevano da una via, un incrocio, un transito. Quei 1801 scatti rappresentano oggi il prezioso patrimonio del museo Mavi di Lacedonia, con l’intera collezione dei negativi che l’antropologo, tornando sul posto sessant’anni dopo, decise di donare in virtù di un atto di restituzione.

A CASTELNUOVO Fotografia (che quest’anno, guidato da Michela Becchis e Elisabetta Portoghese, ha reso omaggio ai Paesaggi dell’utopia su suggestione di Wislawa Szymborska e con un ventaglio di oltre venti mostre – sabato 29 e domenica 30 si terrà l’ultimo fine settimana di eventi e incontri) Frank Cancian è arrivato direttamente dal Mavi, appena riaperto al pubblico con un nuovo allestimento, dopo una radicale ristrutturazione.

IL SUD, DIAFRAMMA APERTO sulle utopie, riemerge anche nelle immagini di Fabio Itri, in quel «bizzòlo» (è lo scalino fuori l’uscio di casa nel dialetto di Reggio Calabria) simile a una piazza improvvisata che l’autore, insieme a Tiziana Barillà, ha trasformato in un foglio di carta, piegato a mano e spedito per posta: vi si narra un altro meridione – con testi e foto – nel tentativo di liberarlo dalla rete degli stereotipi.
Spazi che sfumano verso l’infinito, costellati di vuoti e di sogni spezzati (come un mare alluvionale che negli anni ’50 si trasformò in luogo di vacanze spensierate e attualmente è zona tossica e desolata), tratteggiano l’America di Benedetta Ristori: periferica, marginale, priva di umanità. La perlustrazione della fotografa esula da qualsiasi romantizzazione, la sua scelta visiva sospende il tempo e rilancia l’epica irreale di chi ha inseguito un desiderio rimanendone poi escluso.

L’altra faccia dell’America, suburbana e «immaginata» da comunità di predicatori, filosofi, riformisti è invece quella che candida a protagonista Marta Giaccone in Systems of Harmony (a cura di Nazario Dal Poz). La fotografa, italiana che vive a Tallinn, ha ripercorso la geografia sconfinata che nel XIX secolo fu teatro di fantasiosi ideali religiosi, anarchici e autarchici, rintracciando gli echi di irrealizzabili «società». Mentre Sergio Kurhajec ricrea il paesaggio lunare di Zabriskie Point in una Death Valley che, per cromatismi e luci, si fa quasi icona bizantina.
Atmosfere oniriche, costruite con campi lunghi e figure isolate, sono quelle che circondano il monte Ararat, personaggio principale degli scatti di Murat Yazar, reporter curdo abituato all’esplorazione – e all’attraversamento – dei confini. Questo vulcano spento, che si erge fra Turchia, Iran, Armenia e l’exclave azera di Nakhchivan, custodisce la leggenda dell’Arca di Noè. «Mi sono chiesto come si svolge la vita adesso intorno all’Ararat – racconta Yazar – . Mi interessavano anche le mutazioni naturali. C’è un lago morto, senza più acqua, lì mi sono imbattuto in una nave abbandonata sul fondo prosciugato… Ho voluto mostrare i cambiamenti della terra e delle persone. Se davvero veniamo da quella leggenda, sappiamo però che i problemi politici persistono, le guerre scoppiano ancora, così come continua la distruzione dell’ambiente».

RESISTONO ai venti nemici, alfieri di morte, i bambini di Tano D’Amico, infischiandosene dei buchi del futuro e sfoderando la vitalità di un impulso giocoso che si fa rivolta. La mostra, a cura di Matteo Di Castro e Elena Marasca, si anima a partire dall’immagine di un ragazzino che corre nel cortile di una casa di immigrati italiani a Francoforte. Potrebbe essere uno scatto qualsiasi, ma l’occhio coglie un particolare che rovescia quel momento di pura quotidianità in un’ambiziosa speranza. Dietro di lui, sul muro, si staglia una scritta: «Bambini ribelliamoci». Sono gli anni ’70, gli stessi che il fotografo ci ha riconsegnato in tutta la loro prorompente energia quando, dice, «cercavo uomini donne e bambini che tentassero di cambiare un mondo non a loro misura».

IN CONSONANZA con l’infanzia indomabile, per via di affinità elettiva, può essere letto il lavoro delle fotografe birmane Mayco Naing e Nge Lay (entrambe rifugiate in Francia), portato al festival dalla studiosa di arte indonesiana Naima Morelli. La prima inscena una serie di ritratti «in apnea» che si ispirano al libro Freedom From Fear di Aung San Suu Kyi; la seconda, inscrive su francobolli, foto di archivio e di famiglia l’assurda burocrazia del controllo che vige in Myanmar, trasformandola in una «memoria congelata». A Castelnuovo hanno avuto come compagno di viaggio resiliente anche il «principe attivista» Michele Postiglione Bellamy, discendente della famiglia reale birmana esiliata e fautore della campagna social Free Myanmar Silent Revolution.