«Santafarra si allungava sul mare come una ciucertola». Inizia così Pelleossa, l’ultimo romanzo di Veronica Galletta (minimum fax, pp. 345, euro 18), con Santafarra vista da sopra una collina. Con una veduta aerea si era aperto anche il primo capitolo del precedente Nina sull’argine, intitolato guarda caso «Dal cielo»: «Caterina si era guardata indietro. Alle loro spalle il fiume si allungava fino alla città, stesa sotto ai monti».

ENTRAMBI GLI INCIPIT, oltre a suggerire alcuni dei riferimenti letterari che costellano i due romanzi – quello di Nina Il mulino sulla Floss di George Eliot e quello di Pelleossa L’arpa d’erba di Truman Capote, per esempio – richiamano l’attenzione sul ruolo riservato agli spazi, che Galletta avrà in parte ereditato dagli anni in cui ha lavorato come ingegnera. Questo «sguardo lungo» è anche ciò che consente alla scrittrice di dominare con grande maestria e insieme naturalezza l’architettura delle sue storie, e delle trame che tengono insieme luoghi e personaggi, com’è evidente in Pelleossa dove riesce a orchestrare una sessantina di personaggi che si muovono nel paese immaginario di Santafarra, intrecciandone le storie alla Storia e viceversa. Il lettore, che potrebbe inizialmente essere intimorito dalla folla di nomi di persone e di luoghi, oltre che dalla inaspettata struttura ottocentesca del romanzo, può avvalersi delle «Coordinate per orientarsi meglio» poste a inizio del libro: una sorta di mappa in cui la geografia dei luoghi è trasfigurata dall’esercizio della memoria, dall’intreccio di realtà e finzione. Il primo luogo che incontriamo nel romanzo è la collina di Santafarra, dove si trova la Casa Verde di Paolino Rasura, della famiglia dei Pelleossa, il bambino protagonista del romanzo, che quando prende inizio la storia, nel luglio del 1943, ha sette anni e quattro mesi e che vediamo poi crescere, insieme alla sua isola in attesa degli Alleati, fino al 1947.

NON SOLO LO SGUARDO, dunque, ma anche il tempo è lungo: perché c’è sì il tempo tutto interiore di Paolino, ma anche il tempo rizomatico dei morti quando si intreccia a quello dei vivi. Paolino vorrebbe liberarsi di un’ingiuria: tutti i giorni i suoi coetanei lo chiamano «incantesimo» e per farli smettere decide di entrare nel giardino incantato di Filippo il pazzo, dentro un incantesimo ancora più grande che mescola storia e letteratura, e in cui sentono parlare le teste che Filippo scolpisce: quella di Garibaldi, di Re Vittorio Emanuele, di Toro seduto, di Freud, di Pirandello e infine di D’annunzio.
Pelleossa è un vero e proprio romanzo di formazione, in cui la Storia entra ed esce attraverso gli occhi di un bambino e i racconti dei personaggi a cui si affida: il nonno Silvestro Iodice (il cui nome è un omaggio a Conversazione in Sicilia), Filippu de li Testi, ispirato allo scultore Filippo Bentivegna (e, perché no, al Giacometti instancabile creatore di teste) e l’invalido Zu Ntoni, che non vede ma riconosce le persone dall’odore, e le cui sembianze sono dichiaratamente quelle di Richard il cieco di Suttree di McCarthy. Queste ascendenze e contaminazioni letterarie è la stessa Galletta a svelarle alla fine del romanzo nelle due pagine intitolate A ciascuno il suo.
Anche Paolino ha molti fratelli letterari: da Jim dell’Isola del Tesoro di Stevenson a Michelino di Verderame di Mari, da Pin del Sentiero dei nidi di ragno di Calvino a Nicolas della Settimana bianca di Carrère: d’altra parte la letteratura è un gioco di echi, e in Pelleossa è un’eco lunga, ma mai uno sfoggio, bensì un modo autentico con cui Galletta nutre la sua prosa, prende ispirazione.

DEL ROMANZO di formazione Pelleossa ripercorre tutti i topoi: la prova di coraggio, il giardino incantato, le amicizie deluse e poi perdute, le attese, le incomprensioni, l’incontro con la morte, la maturazione. C’è persino un albero che parla e sogna, un olivo saracino, «alto come un veliero», «che faceva da binocolo» per scorgere tutto il paese, un cugino del sicomoro dell’Arpa d’erba, un parente sicuro del grande elce del Barone Rampante e più in generale di tutti gli alberi su cui i bambini «incantesimati» come Paolino e gli adulti rimasti fortunatamente bambini vorrebbero arrampicarsi. Figlio di una famiglia di pescatori, si sente però più vicino alla terra e agli alberi; del resto il mare lo terrorizza con l’immagine ricorrente di una rete piena di pesci insanguinati e di «ossa sicchii come di picciriddi, lunghe come di gigante». È l’immagine della Morte vista dall’Infanzia, di fatto i due poli sui cui si muove questo romanzo, che Galletta sceglie di raccontare con una lingua che mescola italiano e siciliano, dando vita a un impasto sonoro che conferisce al testo un ritmo inusitato.