Come noto, il 1989 è l’anno che vede la caduta del Muro di Berlino e l’inizio del processo di riunificazione della Germania. Piaccia o meno, si tratta anche di un evento che connota l’Occidente contemporaneo, da quel che chiamiamo «Europa» a molto altro, e quindi qualcosa che ha meritato, merita, meriterà approfondimenti.
In questo, anche il cinema fa la sua parte, e quindi non si può non considerare con attenzione quanto un distributore indipendente come Reading Bloom (www.readingbloom.com) sta attualmente facendo, ovvero una rassegna itinerante che porta nei cinema italiani un programma di 3 grandi film della DEFA, quindi della DDR, che raccontano quella storia da prospettive diverse ma, tra loro, convergenti.

I film sono Winter Adé (di Helke Misselwitz, 1989), Die Mauer (di Jurgen Böttcher, 1990) e Verriegelte Zeit (di Sybille Schönemann, 1990).
Dal titolo «1989-2019, Trent’anni senza muro», la rassegna è a cura di Alessandro Del Re (Reading Bloom) e lo storico di cinema e programmatore Federico Rossin. Nello specifico, Del Re puntualizza: «Il programma nasce dall’incontro tra me e Federico Rossin alle Voci dell’Inchiesta dove Federico curava un programma sulla DDR. Abbiamo deciso di costruire assieme la rassegna visto che Federico negli ultimi anni aveva studiato il cinema documentario della DDR e io volevo portare una rassegna in sala in occasione del trentennale della caduta del muro. Anche nella scelta dei film ci siamo trovati subito nell’intento di costruire un percorso su tre film che si svolgesse a cavallo della caduta del Muro».
Visti insieme oggi, i tre film possono sicuramente funzionare come una specie di viaggio spazio-temporale, in cui il dialogo con la storia viene reso attraverso strategie diverse ma tutte tese verso una spiccata riflessività critica.

STORIE DI VITA
Winter Adé è un bell’esempio di film documentario che racconta storie di vita in un contesto come quello della Germania Est negli ultimi anni della sua esistenza. Il titolo nasce da una canzone per bambini molto popolare e significa «addio inverno». La struttura del film è data, invece, da un viaggio in treno che copriva l’allora DDR da Sud a Nord, da Zwickau a Sassnitz, località sulla costa baltica. Come chiosa Claus Löser in un suo saggio sul film, il lavoro della regista riflette le condizioni di vita dell’epoca, e quindi la tipologia di viaggio tradizionale, dal momento che poca gente possedeva automobili.

Misselwitz ha incontrato e filmato donne, nel tempo libero e al lavoro, passando dall’estremo della giovinezza (il segmento delle due ragazze scappate di casa) a quello della terza età (la festa di una coppia di anziani e la confessione di lei). Mettendo molto spesso al centro le problematicità dirette e indirette del matrimonio, le testimonianze ci presentano un quadro della situazione assolutamente anti-retorico. Senza dubbio, in virtù del valore intrinseco dei ritratti, lo si potrebbe definire un film femminista, in cui l’approccio solidale della regista sembra avere convinto le persone incontrate ad aprirsi senza remore (a testimonianza di questo, nei titoli di coda, c’è persino un ringraziamento alle intervistate per la loro sincerità).

Nel complesso, Winter Adé è un lavoro che fa i conti con il Socialismo di quella Germania criticandone, senza didatticismi, la mancanza di opportunità. Ma fa tutto questo attraverso una scelta compositiva che è, per così dire, assolutamente coerente con una visione del mondo socialista, dal momento che ciò che il film ci mostra non sarebbe lontanissimo dall’idea di «storia dal basso» di un E. P. Thompson. Contraddizione? No, semmai una occasione per ammirare una metodologia che, nonostante gli anni, non ha perso smalto.

PRENDERE POSIZIONE

Die Mauer di Jürgen Böttcher è un film straordinario. Si potrebbe dire che è un tentativo di cinema-cinema, cioè la creazione di qualcosa di indipendente da questa o quell’arte. Allo stesso tempo, si riscontra una specie di stratificazione, la presenza di più livelli di lettura.

Fin da subito, ci si rende conto che l’autore opta per scelte formali che configurano quanto filmato – gli ultimi giorni del muro di Berlino – come una esperienza sensoriale (la formazione dell’autore è pittorica). Per esempio: la macchina da presa indugia molto sulla superficie della costruzione, e quindi su elementi come scritte e disegni, mentre tutt’intorno sentiamo, come fosse leitmotiv, il rumore del continuo smantellamento (martelli, scalpelli ed altro).
C’è poi l’osservazione di quanto accade. Böttcher, e con lui il suo direttore della fotografia, Thomas Plenert, decidono di non seguire la gente ma di intercettarne atti e commenti, tanto quotidiani quanto improvvisati. Qui, si possono notare due caratteristiche: la mancanza di commento verbale e la predilezione per un approccio, diciamo, spontaneista, che però non spettacolarizza nulla. In merito, come Rossin giustamente dice, si può citare il momento sul tetto, in cui non vediamo il concerto di Roger Waters perché l’autore, politicamente, «preferisce filmare il lavoro umile ma necessario di due spazzacamini.»

Infine, si potrebbe parlare di un terzo piano del discorso, cioè quello storico, dal momento che nel film il muro diventa schermo in cui si proiettano determinate immagini della storia. Qui, Rossin commenta: «l’uso dell’archivio per dare al contempo uno strato di auto-riflessività al film e una profondità storica abissale alla caduta del muro ben al di là della cronaca e dei 50 anni della storia della DDR, andando fino a Weimar e alla Germania guglielmina, passando per Hitler: tutto questo ne fa un film che si sbarazza rapidamente dell’attualità per lavorare nell’immaginario intemporale, nel mito e nell’eterno ritorno delle rovine.»

IN PRIMA PERSONA
Come gli altri due film, anche Verriegelte Zeit ha una propria specificità. Qui, c’è una indagine dove il privato si connota di risonanze sociali e politiche.

Dalle note informative messe a disposizione da Reading Bloom, si legge la seguente sinossi: «Sibylle Schönemann era una regista della Germania dell’Est. Nel 1984, lei e suo marito sono stati arrestati dalla Stasi e detenuti per poi andare in esilio nella Germania occidentale. Dopo la riunificazione, è tornata in patria con una troupe cinematografica per incontrare i suoi carnefici, che non hanno mostrato alcun rimorso…»

Al di là della sottigliezza del racconto e dell’indubbia qualità formale del film, c’è qualcosa che sembra spesso emergere con una evidenza tanto naturale quanto perturbante. Al riguardo, l’intervista di Schönemann alla capitana Kirst, l’«educatrice» della prigione in cui è stata, può essere preso come esempio ficcante. Attraverso il coinvolgimento personale, i non detti e le reticenze dell’intervistata emergono come segni di una «cultura» pericolosa, quella dell’annullamento dell’individuo di fronte al sistema. Un qualcosa che, va da sé, trascende quel contesto.