Ancora una volta, dopo 12 anni, sconfiniamo cavalcando Agro in una vasta landa silente, laddove si ergono sbilenchi i ruderi immani di un’antica civiltà tra il nulla spettrale di foreste disertate dalla vita, sabbie scolorite, laghi anemici e insondabili baratri, portando con noi il corpo spento della fanciulla amata nel sogno disperato di una magica resurrezione. Shadow of the Colossus, opera d’arte della malinconia di Fumito Ueda, torna in un remake per Playstation 4, la sua triste bellezza esaltata dalle nuove texture e dall’alta definizione, ma resta immutato nel suo impianto ludico e soprattutto nella sua anima dolorosa di videogame sulla perdita, di epopea sulla grandezza e sul dolore dell’essere umano destinato alla gloria dell’impresa e all’inevitabile caduta della sconfitta.

Posto il cadavere della ragazza sul gelido piedistallo all’interno di un tempio che non ha nulla di umano, il giovane protagonista del videogame, posseduto da spiriti ancestrali, verrà a conoscenza dell’unica modalità possibile per riportare in vita la giovane: abbattere i sedici colossi divini che abitano quelle terre immote oltre lo spazio e il tempo. Il “gioco” è solo questo: l’annientamento della meraviglia, ed è crudele a meno che non lo si interpreti in maniera filosofica come l’allegoria della distruzione di vecchi idoli in una missione per emancipare l’uomo dalle catene della religione. Tuttavia malgrado la potenza evidente dei simboli è la dimensione “realistica” dell’avventura tragica a prevalere sul significato, favorendo un’ immersione nel mondo di gioco e nel suo racconto che non è concettuale ma sentimentale. Solo dopo i titoli di coda avremo modo di riflettere e idealizzare l’amorosa e crudele avventura, ma poco importa perché tutto è già finito, malgrado gli ultimi minuti del gioco rivelino una luminosa promessa di vita, una vittoria del “bene” il cui fulgore è comunque appannato dal trascorso orrore.

Abbattere i colossi, che troviamo dopo lunghi viaggi straordinari attraverso queste terre così inerti e belle, è insieme esaltante e struggente. Ci inerpichiamo in ascese vertiginose su creature immani, che cercano di scrollarci di dosso come fossimo insetti, per trovare i loro eterei punti deboli e affondarvi una spada incantata fino a farli infine collassare. Ci sono colossi bipedi e quadrupedi, volanti e natanti dalle forme antropomorfe o bestiali; ognuno rappresenta una sfida unica che richiede un approccio diverso, il cui esito non alimenta mai quel sentimento di trionfo misurato che consegue il successo in un videogioco, ma l’illusione di un dolore che si fa vieppiù tangibile dopo l’estinzione di ogni gigante. Abbiamo osato scrutare negli occhi insondabili e oceanici del divino, realizzando la fragilità degli dei, ma l’abisso della loro sofferenza è entrato in noi rivelando la mostruosità delle nostre azioni. D’altronde, come scrisse Nietzsche nel celeberrimo aforisma: “ chi lotta contro i mostri deve guardarsi dal diventare, così facendo, un mostro”.

Persino la musica è luttuosa, anche quando più epica, quasi sempre sussurrata o taciuta per esplodere in rari e lancinanti climax. L’ha composta Kow Otani, che ha inoltre scritto le partiture per i film dedicati ad altri mostruosi colossi leggendari come Godzilla, Gidorah e Gamera a cavallo tra il nuovo e il vecchio secolo.

Mesto capolavoro, fondamentale nel ribadire il valore diegetico, estetico e artistico del videogioco quando non è inteso come divertimento assoluto ma diviene vettore di messaggi extraludici, Shadow of the Colossus è la seconda delle tre cantate numeriche di Fumito Ueda, preceduta da Ico e seguita da The Last Guardian, sebbene l’artista giapponese non sia stato coinvolto nel remake, cosa comunque non necessaria considerata la natura totalmente imitativa della produzione. Chissà quindi che Ueda non stia elaborando una sua quarta intuizione per trasformarla in un nuovo, sconvolgente territorio di gioco e meditazione.