Trent’anni dall’omicidio di Jerry Masslo: oggi alle 17 nel cimitero di Villa Literno, in provincia di Caserta, la Cgil con associazioni e istituzioni del territorio deporranno una corona fiori per ricordare il ragazzo trentenne che fuggiva dal Sudafrica dell’Apartheid ma a cui l’Italia negò lo status di richiedente asilo. Rimase chiuso una settimana in una cella nell’aeroporto di Fiumicino, solo grazie alle pressioni dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati venne liberato: gli fu consentito di rimanere nel paese ma senza status giuridico definito.

Aveva chiesto il visto per il Canada, in attesa lavorava come stagionale nei campi e cercava di organizzare i migranti reclutati nel quadrivio di Villa Literno, ribattezzato dai locali «piazza degli schiavi». Era la prima volta che i braccianti migranti si organizzavano così apparvero dei volantini: «È aperta la caccia permanente al nero». La notte tra il 24 e il 25 agosto del 1989 un gruppo di ragazzi locali fece irruzione nel capannone dove una ventina di braccianti dormiva per rapinarli. Masslo non cedette alle minacce, lo spararono all’addome. Da allora è diventato il simbolo della ribellione allo sfruttamento.

«La situazione è in parte cambiata – racconta Tammaro Della Corte, segretario provinciale della Flai Cgil Caserta – ma lo sfruttamento è rimasto lo stesso. Trent’anni fa venivano soprattutto dall’Africa sub sahariana, con il crollo del Muro di Berlino sono arrivati anche i lavoratori dell’Est Europa, che possono passare periodi qui e poi tornare a casa. La comunità africana, nel frattempo, è diventata stanziale. Vivono in appartamenti, spesso sovraffollati, ma comunque con parenti e amici. I ghetti sono quasi tutti spariti, ma qualcuno resiste. Come quello creatosi nell’ex fabbrica di mattonelle vicino al cimitero di Villa Literno per circa 50 persone».

In base alle norme, dovrebbero guadagnare tra i 55 e i 70 euro per sei ore e mezzo più gli straordinari e Tfr. Ma il lavoro si divide essenzialmente in due categorie: nero e grigio. «Si comincia alle 7 e si va avanti per 10, 11 ore con la sosta di un’ora – prosegue Della Corte -. La paga è di 25/35 euro al giorno. Poi c’è la trattenuta per il caporale: 3/5 euro che include il trasporto nelle campagne. Ma c’è anche una forma differente di caporale, il capo squadra. Si tratta di un bracciante che recluta altri braccianti e tutti insieme vanno al lavoro in bici. Non mette a disposizione il furgone ma il contatto con il padrone bianco e gestisce i ritmi di lavoro. Per il proprietario dell’azienda ha il vantaggio di confondersi con gli altri e sfuggire ai controlli». Poi c’è il lavoro grigio: «Ti fanno un contratto per 3 mesi, dovrebbero versarti contributi per almeno 51 giornate lavorative ma in realtà ne versano massimo 6 e non riesci a maturare la disoccupazione. Così l’azienda sembra formalmente in regola per le ispezioni anche perché difficilmente viene controllata a termine contratto».

Le condizioni sono brutali: ad esempio, per raccogliere le fragole bisogna stare piegati in serra per ore, con la temperatura che sale a 40 gradi. «Soffrono alle mani, alla schiena, alle articolazioni – spiega ancora -. Le donne hanno spesso problemi ai genitali perché, costrette a fare i bisogni in campagna, si puliscono con le foglie. Sono quelle che hanno la vita più dura: gli stessi compiti degli uomini più quelli che richiedono precisione. Oltre a subire abusi sessuali».

La Flai da dieci anni fa sindacato in camper: «Li andiamo a intercettare per spiegare a cosa avrebbero diritto così, almeno, possono provare a chiedere condizioni migliori. Purtroppo facciamo poche vertenze: hanno paura che, denunciando, poi perdano l’accesso al “mercato delle braccia”. Il sindacato è spesso il loro unico tramite con le istituzioni: la sanità, la scuola per i figli, la pubblica amministrazione».