A sud della San Francisco Bay Area si estende la costa altamente surfabile della contea di Santa Cruz. Essa assomiglia all’immaginaria Vineland (1990) di Thomas Pynchon, che fu incognito abitante di quei posti quando compose L’arcobaleno della gravità (1973), pietra miliare del postmodernismo. A questa variegata e ideale etichetta è stato associato, a torto o a ragione, anche l’antropologo James Clifford, classe ’45, professore emerito di Storia della coscienza proprio all’Università della California di Santa Cruz. A partire dagli anni Ottanta i suoi studi sulle pratiche museali, sull’alterità, sulle scritture di viaggio e sulla fiction etnologica, hanno rappresentato una vera rivoluzione copernicana nell’antropologia. Clifford sarà ospite dei Dialoghi di Pistoia sabato 28 (alle ore 17) presso il teatro Manzoni, dove terrà una conferenza dal titolo Raccontare storie sulla storia (in tempi confusi).

In «I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX» (Bollati Boringhieri, 1993) lei ha dimostrato l’esperienza irrimediabilmente soggettiva dell’antropologo. Può parlarci del suo approccio alla disciplina?
L’espressione «irrimediabilmente soggettiva» suggerisce che, una volta che si rinuncia all’oggettivo, si è condannati alla soggettività. Respingo tale opposizione, l’aut-aut, la scelta che impone. In I frutti puri impazziscono e in Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia (con George E. Marcus, Meltemi, 1998, ndr) la presenza dell’antropologo nei resoconti interculturali è intesa solo come una componente della pratica «dialogica» – termine di Michail Bachtin – dell’etnografia. Una raffigurazione interculturale non è un fatto oggettivo, né un’esperienza personale. È un rapporto, o meglio una relazione, con gli altri. E queste relazioni coincidono con fatti storici e sociali. Includono il dominio coloniale, le differenze di genere, gli scambi economici e le competenze linguistiche, su entrambi i lati dell’incontro. L’antropologo lavora per riprodurre le relazioni da una posizione che è al loro interno. Non può esserci un resoconto del tutto obiettivo e distanziato di «una cultura». Ma può esserci un serio tentativo di ritrarre culture in contatto, un realismo parziale, «posizionato».

In «Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX» (Bollati Boringhieri, 1999) ha invece esposto la sua intuizione di «collage» come «mezzo per far spazio all’eterogeneità». Cosa intende esattamente?
Forse dovrei spiegare perché ho voluto «forzare» l’idea di cultura. Prima dell’antropologia del XX secolo, «Cultura» era maiuscola e singolare, un concetto che denotava quella che oggi chiameremmo cultura alta o sofisticata. L’antropologia moderna ha permesso di parlare di «culture», interi stili di vita che includevano l’esistenza quotidiana, la lingua, la religione, l’economia, lo sport, le relazioni di genere e molto altro. Le culture sono state ripartite in tutto il mondo senza essere classificate gerarchicamente in serie evolutive. Come le lingue, erano semplicemente diverse e complesse. Il «relativismo culturale» congiunto all’antropologia è stato, ed è tuttora l’apporto più importante al pensiero moderno.
Di valore duraturo fu anche la critica decisiva alla scienza razzista da parte di Franz Boas e dei suoi studenti: la spiegazione delle differenze umane non come caratteristiche innate ma come comportamento appreso e norme sociali. Allora perché questa importante idea di cultura doveva essere «forzata»? L’obiettivo non era confutarla o decostruirla, ma creare un’unità più sciolta, più aperta al cambiamento.
La parola «cultura» suggerisce qualcosa che cresce, un corpo organico con parti integrate. Questa totalità non ha lasciato spazio ai modi in cui i gruppi umani si sono sviluppati storicamente, spesso sostituendo nuovi elementi esterni ad aspetti della vita che prima erano ritenuti essenziali. L’ipotesi di una cultura organica invitava all’essenzialismo, a nozioni di autenticità basate su completezza e integrazione. Mentre studiavo i modi in cui le popolazioni indigene sono riuscite a sopravvivere e ad adattarsi, ho notato che l’integrità culturale olistica era un ostacolo alla comprensione di come l’imparare l’inglese o il diventare cristiani potessero essere modi per rimanere indigeni in nuove circostanze, spesso coloniali e disuguali. Il collage divenne così una composizione le cui parti, alcune molto diverse dalle altre, erano unite in maniera da lasciare visibili le giunture. Mi ha fornito un modello per un insieme culturale «articolato», non un organismo: una forma in costruzione più aperta al processo storico.

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Con «Scrivere le culture» lei mostra la persistenza dei modelli allegorici nella ricerca antropologica. Qual è il contributo della letteratura ai suoi studi?
Ho spesso pensato che le etnografie e i romanzi realistici avessero molto in comune. Sono descrizioni complesse di mondi sociali e culturali. Bronislaw Malinowski aspirava a essere il «Joseph Conrad dell’antropologia». E non pochi etnologi hanno sperimentato la narrativa. Tristi tropici, la grande opera di Claude Lévi-Strauss, lavora con il tempo e con lo spazio in modalità molto simili alla scrittura modernista. Eppure, nonostante ci siano parecchi crossover, narrativa e scienze sociali rimangono generi distinti, con le loro regole e i loro protocolli. La critica «testuale» impiegata in Scrivere le culture non ha ridotto, come alcuni sostengono, l’antropologia a letteratura. Ha semplicemente analizzato i processi di iscrizione e figurazione retorica utilizzati da entrambi i generi, poiché riconoscono fatti significativi e formano storie significative. Nel capitolo a cui lei fa riferimento, ho esplorato il processo dell’allegoresi in etnografia. Questa è l’inevitabile tendenza di una storia a evocare un’altra storia, a parlare di qualcosa di più di quello che dice esplicitamente. Ho sostenuto che, quando le etnografie mantenevano in vita per iscritto la conoscenza culturale, si richiamavano a una narrativa storica sottostante: la cultura orale inevitabilmente cedeva alla cultura letteraria. Così le società tribali, tradizionali sembravano destinate a scomparire nella «modernità». Ma tali narrazioni storiche, che sono state inglobate nella creazione di etnografie come testi, hanno distorto ciò che stava accadendo: i popoli indigeni, nonostante l’estrema violenza coloniale, non stavano scomparendo. Stavano cambiando.

Ritiene che l’antropologia abbia ancora un ruolo da svolgere nel mondo odierno?
La mia risposta è decisamente sì. L’antirazzismo boasiano, che stabilisce l’importanza delle influenze sociali e culturali nel sostenere le differenze umane, rimane fondamentale. E il concetto di relativismo culturale, come detto, è essenziale per le interazioni umane e il pensiero critico. Gli stili di vita differiscono notevolmente e dobbiamo comprendere e apprezzare le discrepanze senza pregiudizi o romanticismo. Soprattutto, in questi tempi confusi in cui le narrazioni principali di civiltà, ragione, progresso e democrazia non forniscono più la direzione che avevano una volta; e con il ritorno del nazionalismo, del razzismo e della xenofobia, delle loro false certezze e delle loro risposte semplicistiche, occorre coltivare un’attenzione alla complessità, una sorta di ascolto lucido e vigile. Penso a ciò come se l’etnografia fosse una sensibilità, non un metodo, derivata dal lavoro antropologico sul campo nella sua forma più «dialogica». Pazienza. Prontezza nell’essere sorpresi. Consapevolezza delle possibilità nascoste nell’ombra, silenziose, emergenti… Consideriamo soltanto la sfida travolgente del cambiamento climatico: quando pensiamo in grande, in narrazioni radicali e planetarie, di solito finiamo con il fatalismo, la disperazione. Il governo mondiale non è un progetto realistico. L’etnografia dice: «Non così rapidamente!». Le risposte locali, le soluzioni parziali e pragmatiche che si stanno sviluppando in culture e ambienti diversi, possono essere la nostra via più positiva.

Come ha già anticipato, il concetto di interculturalità è assimilabile alla «polifonia» di Bachtin. In che modo potremmo davvero rappresentare l’altro se non attraverso l’exotopia bachtiniana, l’uscita da sé stessi?
Bachtin è un pensatore complesso, a volte disordinato, ma assai suggestivo. La sua nozione di exotopia è certamente legata al principio fondamentale della natura «dialogica» della realtà. Mi viene in mente un proverbio igbo, citato dal romanziere nigeriano Chinua Achebe nella sua opera più celebre, Le cose crollano. «Nessuna cosa sta sola. Ogni cosa ha qualcos’altro in piedi accanto a sé». Non c’è pensatore più «relazionale» di Bachtin. Il suo concetto di «polifonia» mi ha aiutato a immaginare testi etnografici a più voci e a più autori. Lei parla di interculturalità. Per Bachtin ciò non sarebbe un incontro di mondi precedentemente separati.
Nella sua ontologia dialogica, l’alterità è sempre già dentro il sé. Le culture nascono nelle relazioni, quindi conoscere un’altra cultura fa parte della formazione e della trasformazione del sé. Sono sempre riluttante a parlare astrattamente dell’«altro». Le culture e i sé si conoscono solo in rapporto ad altri specifici, attraverso le frontiere attive della comunicazione. I significati culturali e le essenze sono creati in margine.

 

SCHEDA

Raccontare storie sulla Storia (in tempi confusi) è il titolo dell’incontro che l’antropologo statunitense James Clifford terrà sabato 28 maggio (ore 17.00 – teatro Manzoni) nell’ambito della tredicesima edizione di Dialoghi di Pistoia, il festival di antropologia che si svolgerà dal 27 al 29 maggio, ideato e diretto da Giulia Cogoli, e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia.
Quest’anno il tema è «Narrare humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginari». Apre il festival il classicista Maurizio Bettini con la lectio inaugurale Narrare. Nelle maglie di una rete infinita. Il Premio Internazionale Dialoghi di Pistoia quest’anno andrà a Dacia Maraini, che racconterà il suo lavoro nel colloquio Elogio dell’immaginazione con Paolo Di Paolo. Tra gli altri ospiti: l’antropologo Marco Aime con la scrittrice Elvira Mujčič; il musicista Mario Brunello con il musicologo Guido Barbieri; il semiologo Stefano Bartezzaghi; l’italianista Lina Bolzoni; le attrici Anna Bonaiuto e Lella Costa; la fotoreporter Monika Bulaj; la giornalista Concita De Gregorio con la scrittrice Caterina Soffici; l’analista politico Giovanni Diamanti; il latinista Ivano Dionigi; gli antropologi Adriano Favole e Andrea Staid; lo storico Francesco Filippi; gli scrittori Roberto Saviano, Marino Sinibaldi, Giordano Meacci e Vittorio Meloni; il filosofo evoluzionista Telmo Pievani; la psicoterapeuta Manuela Trinci con la psicologa Silvia Vegetti Finzi; lo psicoanalista Luigi Zoja.
Biglietti: € 3,00 – € 5,00 (concerto). Per informazioni: www.dialoghidipistoia.it