Più si avvicina il 2026, anno nel quale tutti i 237 miliardi di euro del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza dovranno essere spesi, e più sono evidenti gli errori accumulati per attuarlo. Si continua ad immaginare che la realtà del nostro paese sarà trasformata con città e territori finalmente provvisti di quelle infrastrutture, reti e servizi attesi da decenni, in particolare al Sud, insieme a quella serie di riforme anch’esse in ritardo come il resto.

Non da ora si ragiona su quanto l’attuazione del Pnrr sia complessa e fuori dall’ordinario. Una riflessione, quella sulle capacità di spendere questa massa ingente di denaro, che si sarebbe dovuta compiere all’inizio dei governi Conte II e Draghi, ma che oggi preoccupa non poco i diversi enti e amministrazioni pubbliche chiamate all’esecuzione degli investimenti.

Dell’«ubriacatura iniziale» avvenuta nel 2020, dei problemi sorti, dei prevedibili fallimenti, ma anche dei correttivi da intraprendere, si occupano Tito Boeri e Roberto Perotti in Pnrr, la grande abbuffata (Feltrinelli, pp. 208, euro 18). Il saggio riflette sulle molteplici contraddizioni dell’attuazione del Piano e sulle sue concrete capacità di riuscita fra transizione verde e digitale (57% delle risorse).

Al centro dei problemi c’è l’incapacità della politica di saper commisurare il «quanto si investe» in relazione a «come e in cosa si investe»: ciò che gli autori chiamano il «feticcio degli investimenti», che si riscontra, a fronte di un eccesso di proclami, nell’incapacità di saper valutare in maniera razionale l’intervento pubblico. I due economisti considerano «implausibili» le ricadute che riguardano l’incremento del Pil derivante sia dagli investimenti che dagli effetti provenienti dalle riforme, per le quali non si hanno «metodologie attendibili» per stimare entrambi, ma che produrrebbero «5 o 6 trilioni di euro cumulati, contro una spesa di 300 miliardi». A detta degli autori: «Qualcosa non quadra».

OLTRE L’EUFORIA dei nostri politici, che in tutta fretta hanno richiesto il massimo fruibile in sovvenzioni (83 Mld) e prestiti (123 Mld), ciò che spicca è anche la posizione non lineare assunta dalla Commissione europea che è stata indifferente sui rischi di questa «ingordigia», soprattutto rispetto al nostro alto debito pubblico. In uno scenario dove si muove un’organizzazione statale priva di attitudini alla programmazione economica, gli autori riflettono sugli autentici vantaggi del Pnrr, considerando che per il fondo perduto si tratta di 42 Mld effettivi, dovendo sottrarre la quota annuale che l’Italia versa alla Ue, e il fatto che rispetto al finanziamento erogato, il risparmio è modesto se si fosse ricorso al mercato.

Insomma, «avremmo potuto decidere con calma quanto prendere a prestito – scrivono Boeri e Perotti – invece il governo Conte II decise di prendere tutto e subito», Draghi «probabilmente se ne rese conto», ma assecondò la «macedonia di progetti priva di strategia e obiettivi chiari e condivisi» (Forum Disuguaglianze Diversità, 2020) che ci attendeva. Questione di perdita di credibilità – «nessuno ama smentire se stesso» – o di altro? Ora che il Piano procede con lentezza (spese circa il 15% delle risorse) ed è stato rinegoziato dal ministro Fitto senza toccare la somma totale, ma rimodulata tagliando quasi tre miliardi dell’inclusione e coesione sociale, permane la preoccupante questione dell’attuazione dei progetti e del loro mantenimento nel tempo.

UN SEVERO GIUDIZIO è anche rivolto alle 63 riforme previste nel Pnrr, che avrebbero dovuto precedere gli investimenti in un tutto organico, e che è prevedibile non si realizzeranno, specie le più importanti: mercato del lavoro, giustizia e scuola. Il libro esamina diversi investimenti del Piano: da quelli più costosi riguardanti le politiche del lavoro, al digitale, dove è prevista una spesa quadrupla rispetto agli altri paesi, dalla giustizia alla sanità, dall’università al Superbonus, per il quale è esagerato il peso dei costruttori (Ance) poiché l’edilizia incide solo del 4% sul Pil. Il Piano non disegna l’aspetto dell’Italia degli anni Trenta: se ci saranno cioè miglioramenti diffusi che il tempo dovrebbe consolidare, o se invece accerteremo l’ennesima occasione mancata. Non ci resta purtroppo che attendere che il Pnrr si «realizzi», tra i molti dubbi e le troppe attese.