A più di trent’anni dalla fondazione, il festival di Almada macina sicuro il proprio successo riempiendo ogni sera i teatri della città che sul Tago fronteggia Lisbona, ma anche le sale della capitale che spesso ospitano gli spettacoli del festival. L’elemento di maggior interesse, per chi viene dall’estero, è il suo pubblico di massa, dove si mescolano con nonchalance tranquille famiglie locali e molti artisti e intellettuali portoghesi, tutti egualmente interessati e tutti egualitariamente seduti a cenare al ristorante all’aperto che lo stesso festival gestisce e riapre ogni anno per la manifestazione, nel giardino di una scuola.
La presenza italiana quest’anno è stata particolarmente significativa: due rappresentanti illustri e innovativi del nostro teatro, Pippo Delbono e Emma Dante, cui è toccato rispettivamente con Orchidee e Le sorelle Macaluso, aprire e chiudere (ieri sera) il ricco programma festivaliero. A vederli affiancati nel gradimento del pubblico, e fuori dei calendari italiani, risaltava il fatto che entrambi gli spettacoli abbiano come «perno» drammaturgico la morte: lo spettacolo di Delbono è una sorta di rito di elaborazione del lutto per la morte della madre; la storia raccontata da Emma Dante inizia con un funerale che si rivela una sorta di processo analitico per le sette sorelle del titolo.
Nell’insieme l’abbinamento dava una immagine significativa e, nei diversi modi, fedele di quello che è ora la società italiana, anche fuori della scena. Significativa in particolare per il pubblico portoghese, che con noi condivide tra le molte cose (oltre a una crisi economica spaventosa, dove a lottare contro l’euro è però l’estrema sinistra) una condizione di «meridionalità» accentuata. A conferma del fatto, come Emma Dante ha spesso ripetuto, che quella che lei porta in scena non è specificamente la sua Sicilia (anche se ne parla la lingua) ma ogni «sud» del mondo.
Il vero focus del festival era però puntato su un altro sud, di dirompente e massivo impatto culturale. È quello dei nuovi teatranti argentini, anzi novissimi, molto più giovani di Rafael Spregelburd e di Claudio Tolcachir che stanno ormai sulla quarantina d’anni, per non parlare di un «progenitore» come Daniel Veronese e il suo glorioso Periferico de objectos. Una generazione poco più che ventenne, piena di grinta e «acidità» nei confronti di ogni gerarchia costituita, valori e comportamenti. Una generazione che non esita a mostrare le proprie «debolezze», fin quasi alla tenerezza, cercando e rincorrendo un altro ordine del mondo, anche dentro la formale condizione operaia o piccolo borghese. Immigrati in Argentina dal Perù (come succedeva cento anni prima da Italia e Spagna), sono poco più che ragazzi i protagonisti di Suados, ovvero «sudati» di fatica, stanchezza e conformismo. Due si improvvisano muratori, e in poche ore stanno trasformando verso la modernità la vecchia casetta che il terzo ha ereditato dal padre. Disposti a tutto, i primi due, per perfezionare la loro opera (che a noi può evocare la fatica di Remondi e Caporossi Cottimisti), e mentre lavorano e sudano, fanno emergere le differenze padronali tra il giovane proprietario e suo padre per il quale già lavoravano, ma come camerieri. Con tono da commedia, che nella sua semplicità elementare fa intravvedere le ombre sociali incombenti. Interessante che attori e regista firmino tutti assieme il testo.
Non meno significativo, nell’ampia galleria presentata ad Almada, il sogno incredibile di Germania, testo e regia di Nacho Chatti. Ovvero una intera famiglia chiusa nella claustrofobica camera del padre sempre a letto, e che si ossessiona sul sogno tedesco di una vita ideale: funzionale, agiato, moderno, e circondato da belle alpi bavaresi. Sogno lontano e non realizzato, ma ardentemente vissuto tra illusioni sconfitte, basket mai vinto, e il fiume inarrestabile di telenovelas in tv. Sono solo due esempi, ma indicativi del ventaglio molto ampio di testi e linguaggi che suona di monito alle culture ufficiali di altri paesi ben più ricchi.
A fianco al focus argentino, il festival di Almada ovviamente non perde di vista la situazione portoghese (ne è andata in scena una ampia selezione) e tanto meno quella europea. Nonostante i tagli pesanti inferti al bilancio dalla scure governativa, c’è stato un intervento maggiore da parte della municipalità (che le elezioni hanno confermato con una maggioranza ancora più larga alla sinistra) e ancora l’impegno generoso e ragionato del giovane direttore, Rodrigo Francisco (drammaturgo e regista) e del suo staff. Così sul palcoscenico del festival, all’aperto ma superattrezzato, come nei teatri ufficiali di Lisbona, sono sfilati nomi importanti della scena europea. Oltre ai nostri Delbono e Dante (arrivata qui direttamente dal trionfo di Avignone), ci sono stati tra gli altri Declan Donnellan, col suo ancor più lucido e tagliente Ubu re ambientato nel fascino discreto della borghesia parigina, e Josef Nadj col suo incisivo Paesaggio sconosciuto, corpo a corpo di movimento e crudeltà tra lui e il danzatore Ivan Fatjo, in parallelo o incrociandosi col duello dei due musicisti a fianco a loro: un’ora di belle suggestioni, cattivi pensieri, tenerezza e memorie d’infanzia.
Ma l’artista di caratura internazionale al centro di un ampio omaggio è stato invece proprio un portoghese, Luis Miguel Cintra. Lui, attore più ancora che regista, autore di grandi spettacoli e interpretazioni, ma anche volto costante di tanti film di Oliveira, è per bravura e autorità il padre riconosciuto della scena portoghese. E si permette un testo insolito assai poco frequentato: Ione di Euripide. Una tragedia «strana» rispetto alle tipologie che conosciamo pigramente. Una tragedia realista, cui si ispirò largamente la commedia ateniese successiva, e che a differenza di tutte le altre tragedie, viene decisa non dalle ragioni degli dei, ma puramente dal Caso. Per venirne a capo, c’è una sorta di rappresentazione, un teatrino familiare, perché la madre di Ione, Creusa, lo aveva concepito niente meno con Apollo, senza dir nulla al marito. Il ritorno di quel figlio che aveva cercato di far morire, è la vera chiave tragica che si fa spettacolo di bugie, finzioni, rivelazioni, perpetuazioni. Risolte assai sbrigativamente da Atena. Come si diceva in Germania, il passato che non passa.
Cintra gioca la doppia prospettiva degli attori in abiti contemporanei e dei personaggi togati, sfalsati di piano come platea e palcoscenico. Unisce a Euripide testi di altri, primo tra tutti Pasolini. E sul gioco dell’ipocrisia e delle scomode eredità, del presente contro il passato, lancia la sfida più provocatoria. Perché questo spettacolo gli era stato commissionato per il quarantesimo anniversario della rivoluzione dei garofani contro la dittatura salazarista, il 25 aprile del ’74. E il teatro dei grandi, si sa, non mente. E non perdona.