Il Sacre di Igor’ Stravinskij, ovvero La sagra della primavera come suona l’infelice traduzione diventata d’uso comune, è uno dei momenti fondanti della cultura del Novecento. Non per caso dal lontano archetipo, la quasi leggendaria interpretazione che ne diede cent’anni fa Vaslav Niinskij con i Balletti russi di Djagilev in una tumultuosa serata parigina, non ha cessato di calamitare l’attenzione di artisti molto diversi, fino al vero e proprio balletto meccanico inscenato di recente da Romeo Castellucci. Non perché sia un banco di prova, come si usa dire, ma per la forza nervosa di una musica che chiede di essere agita. Martha Graham ci arrivò novantenne, a conclusione di un lunghissimo percorso artistico; al contrario fu un punto di partenza per Pina Bausch, quando ancora la coreografa di Wuppertal stava esplorando la vocazione teatrale della sua danza. Straordinaria opera al nero, quest’ultima, che su una superficie terrosa metteva da parte ogni sovrastruttura folclorica per calare l’azione nel presente, mettendo a nudo il conflitto da cui nasceva la violenza esercitata sull’eletta e la rivolta impotente e indomita della donna.

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Anche Virgilio Sieni dichiara apertamente il proprio disinteresse per le «scene della Russia pagana», per l’elemento barbarico dell’ipotetico rito, nella creazione che ha debuttato sul palcoscenico del Teatro Comunale (lo spettacolo prodotto dall’ente lirico bolognese si inscrive in un più ampio progetto «nelle pieghe del corpo», a cura di Emilia Romagna Teatro, dedicato all’eclettico coreografo toscano che da tempo trascorre dalle prove con la sua compagnia a pratiche indisciplinate, con anziani o bambini). La stessa condensazione del titolo a programma nel solo primo termine, Le sacre appunto, sembra alludere a una cancellazione dell’argomento o di una narrazione, per evidenziare invece un elemento rituale che sta fuori dal tempo. Del resto il lavoro coreografico di Sieni, il lavoro di «trasmissione del gesto» che l’impegna da tempo, pur così attento al mondo della fiaba, non è mai narrativo, non racconta e non interpreta, è piuttosto teso a una messa in opera del corpo.

Prima c’è però un Preludio danzato da sei giovani donne di cui si intuisce, più che realmente vedere la nudità nella penombra nebbiosa della scena. In fila fianco a fianco, si muovono con gesti lenti e in una sorta di sfasamento. Come il propagarsi di un’onda. Poi i movimenti si aprono sulla scena, si abbassano a toccare il suolo, seguendo quelli della musica, i quattro movimenti della suite per contrabbasso solo eseguita dall’autore Daniele Roccato. Però conservando una rarefazione che dal rallentato arriva all’immobilità, lasciando emergere qualcosa di primordiale, in senso emozionale più che antropologico. Si comprende poi quanto questa sorta di archeologia del gesto tenda in realtà a creare un dizionario gestuale che si dispiegherà anche nella seconda parte del dittico.

Nella Sagra della primavera le presenze in scena appaiono raddoppiate dall’ingresso di altrettante figure maschili. Ma il maschile e il femminile non sono qui universi violentemente contrapposti, com’era per Pina Bausch, quanto piuttosto le metà complementari di un ensemble che esalta la dimensione collettiva. Come fosse un unico corpo che si dilata e si contrae, che si spezza in segmenti che poi si riuniscono di nuovo, secondo linee geometriche primarie, un cerchio o una retta. Oppure cercano un’accelerazione, sperimentano l’energia di una corsa, fra piccoli salti e passi laterali che esaltano la mobilità delle braccia, quasi adagiandosi sulle esplosioni ritmiche della musica di Stravinskij (l’orchestra del Comunale è guidata dal giovane direttore tedesco Felix Krieger). Le luci si sono fatte più nette; i corpi un po’ più vestiti, non tanto però da assumere un’individualità o una connotazione sociale.

Quando una di loro, apparentemente la più esile e fragile, viene presa e tenuta sollevata o capovolta dagli altri danzatori, ci si riconnette al motivo originario del pezzo danzato, il sacrificio dell’eletta. Ma non c’è pathos né violenza in questo, non c’è volontà drammatica, ciò che persiste è l’immagine di una comunità che celebra la memoria del suo rito.